È in ritardo, anche oggi! Mi sembra un’eternità che l’aspetto qua fuori, intirizzita dal freddo. Questo vento proprio non ci voleva: i miei capelli sono già un disastro e non voglio pensare a come saranno quando arriveremo a casa dei Larsson. Ma eccola, finalmente!
“Martina, ma come ti sei vestita? È domenica, al pranzo ci saranno anche la signorina Elsa, il parroco, il dottorGerard…” vorrei continuare, ma non me lo permette.
Fa una piroetta, un inchino sbilenco e, alzando la gonna fin sopra il ginocchio, mi mostra le sue calze: “Le toppe le hocucite tutte da sola, con un pezzo del tuo foulard, quello a fiori che non usi più.”
Chi le ha dato il permesso di frugare tra le mie cose? Chi le dà la libertà di decidere che quel foulard non mi serve? Stringo i pugni chiusi nelle tasche del cappotto, sospiro. È tardi e non ho tempo di discutere con lei.
“Andiamo”, dico. Ieri sera ha piovuto, il sentiero è fangoso e per alcuni tratti sono costretta ad alzare la gonna e acamminare in punta di piedi. Stasera dovrò lucidare di nuovo gli stivali.
“Annika, non ti sembra un paradiso?” Martina mi saltella accanto come un giovane cerbiatto. Lei non scansa le pozzanghere: semplicemente non le vede e mi schizza la gonna di fango.
“Fai attenzione, Martina!”, ma non mi sta ascoltando. Ha chiuso gli occhi, la testa all’indietro e le braccia allargate con i palmi delle mani rivolti al cielo.
“Un paradiso! Chiudi gli occhi, Annika, e respira profondamente. La senti la fragranza del muschio, il profumo umido dei funghi, l’odore della terra bagnata” sospira. Poi, all’improvviso, spalanca gli occhi e mi stringe forte.“Scriverò una poesia, stanotte, sì, e te la dedicherò, Annika cara.”
Mi sciolgo da quell’abbraccio e mi rassetto la gonna. “La notte faresti meglio a dormire se non vuoi alzarti con dueorribili occhiaie scure.”
Lo dico, ma so che non accadrebbe: Martina è bella, bellissima. La pelle chiara, occhi grandi color indaco, le labbra piene. Anche adesso che mi guarda imbronciata è incantevole. “Forza, andiamo o faremo tardi; non sta bene faraspettare gli ospiti” la incalzo.
“Autunno, generoso pittore, che usa il colore per farti incantare.” Martina non cammina, piroetta canticchiandoquesta nenia infantile. Scuote i lunghi capelli al sole: ciocche ricce, con riflessi di rame e d’oro.
Per un attimo non posso fare a meno di osservarla. Succede a chiunque la incontri di fissarla, di restare bloccato come di fronte a un quadro. “Basta con queste sciocchezze, la strada è ancora lunga.” Mi rimetto in cammino, accelerando l’andatura.
“Pensa a quanto siamo fortunate, Annika, pensa al posto magnifico in cui viviamo” eccola che ricomincia; la lascio parlare, fintanto che cammina spedita. “Vorrei abbracciare tutti gli alberi, sentire il loro respiro, vedere da vicino leformiche che si arrampicano in fila sulla corteccia.”
Mi prende per mano, la sua mano calda che stringe la mia, gelida.
“E il lago, Annika. Lo vedi il lago laggiù? Guarda come brilla! Lars dice che sembra d’argento e…”
Lars il figlio dello stalliere, Lars senza arte né parte, Lars che va in giro con i pantaloni rattoppati di suo padre.
“Martina, non avrai visto di nuovo Lars?” la interrompo. Questo è troppo e non posso permetterlo. “Non avresti dovuto vederlo più: sai che da oggi tutto cambia per te e, se Dio vorrà, anche per tutti noi. Lo sai, vero, Martina?”
Mi blocco in mezzo al sentiero, lei continua a tenermi la mano, io la guardo dritta negli occhi. Deve capirlo, devecomprendere bene che ne va della sorte di tutti noi. Ha sedici anni, ormai, e diventare la moglie di Erik Larsson, la madre dei suoi figli, sarà una benedizione.
“Papà è morto sereno, quando gli hai promesso che ti saresti sposata. Devi mantenere quella promessa, devi sposare Erik”. Forse la mia è sembrata una minaccia, perché Martina ha ritirato la sua mano. Ora la mia è di nuovo fredda.
Riprende a camminare di fianco a me. “Autunno, artista spietato che illude il mio cuore per farmi soffrire.”
Lei sta soffrendo? Lei soffre? Lei che può ambire a una vita comoda, a una casa, a un marito. E io? Papà lo sapeva che non avrei potuto trovare un uomo che mi chiedesse in sposa. E chi la vorrebbe una come me? Seria, beneducata, certo; pulita e servizievole, puntuale, precisa, ma brutta, brutta e sgraziata. Nessuno si incanta a guardare me. Quante volteci hanno detto che non sembriamo nemmeno sorelle? Che non potremmo essere più diverse?
“Dobbiamo muoverci, Martina” la incalzo, prendendola sottobraccio. Mia sorella mi stringe di nuovo a sé; non mi piacciono questi gesti sconvenienti, ma la lascio fare. I suoi capelli profumano di lavanda e mi solleticano il naso. La sua voce è un sussurro, il suo alito sul mio collo è caldo, sento il tepore del suo corpo contro il mio. Eppure trema.
“Manterrò la promessa che ho fatto stringendo le mani di papà: sarò felice.”
Martina forse ha capito, forse anche la sua testolina fantasiosa vuole trovare pace. Menomale, posso tornare a respirare e sì, Martina ha ragione: il lago è d’argento anche se il sole adesso si è nascosto dietro a una grossa nuvola nera.
“Guarda, Annika, anche papà amava il lago.” Si scosta leggermente da me e si sfila dal collo un grosso medaglione color ottone. Per qualche secondo non riesco ad aprirlo: le mie dita sono gelate, impacciate. Alla fine riesco a far scattare il meccanismo: vedo papà sulle sponde del lago, un abito elegante. Non è giovanissimo, riconosco la stempiatura dei capelli. Il ritratto deve essere solo di qualche anno fa. Tiene per mano la mamma.
“Annika cara, fammi vedere il lago ancora una volta, ti prego.” La voce implorante di Martina quasi mi spaventa. “Annika, Annika…” lo ripete più volte lentamente, una ninnananna. “Anche papà sul lago era felice.”
Papà è davvero felice in quella vecchia fotografia sbiadita, guarda la mamma come non gli ho mai visto fare, in verità.L’amore che mi sono persa è tutto qui, in questa fotografia. Martina sta scendendo dal Poggio di Giugno, la gonna che fruscia tra l’erba. Non la solleva, incurante delle foglie chele si impigliano sull’orlo. Sarà impresentabile per il pranzo, già lo so.
Guardo di nuovo il medaglione, pesante nella mia mano. Il cuore accelera, mi manca il respiro, vorrei gridare, ma dalla mia bocca esce un rantolo rauco: “Non è con la mamma, questa non è la mamma!”
Martina cammina, i capelli ramati mossi dal vento. Accelera il passo, la immagino ridere, impaziente di arrivare a riva. L’amore in uno scatto, l’amore su un lago, l’amore quello vero, l’amore che non hai potuto vivere. L’amore che ti avrebbe reso felice era per qualcun altro. Martina non si ferma, mi sembra di sentire la sua risata argentina, di vederla mentre si tocca il petto, lì dove conservava il medaglione. Dovrei raggiungerla, correre da lei, sollevarla, salvarla. La gonna gonfia d’acqua, una ninfea nel lago argentato.
Martina ha mantenuto la promessa.