Benedetta

Serena Barsottelli

Luci fredde al neon nei ritagli di spazio tra i loro corpi. Un colpo acuto sotto la schiena si confonde con la contrazione che dal basso ventre si dirama fino ai reni. Inarco la schiena. Punto i piedi contro la barriera del letto. Mordo la mano per bloccare le grida.
Fai smettere questo dolore! Dio, fallo smettere!
Signora, dice una voce. Signora, va tutto bene.
È durato troppo, stavolta. Le contrazioni sono sempre più lunghe e vicine. Durante l’ultima siamo passati davanti a molte porte antincendio chiuse, poi in un corridoio più stretto, sulla destra. L’anticamera dell’ascensore, in attesa che quello non guasto arrivi. Una volta dentro, la pancia è tornata morbida.
Ci deve essere un’alba bellissima là fuori. È un bel giorno per nascere. Mi lascio avvolgere da quella voce calma e profonda, l’unica maschile.
Vorrei voltarmi e sorridere. Vorrei pensare anche io a quel sole che lento lento rischiara la valle sbucando dai monti. Io, invece, ho sempre avuto la fretta dei tramonti, la melanconia del crepuscolo, l’inquietudine della sera.
Luci fredde al neon, poi tutto diventa nero. Non ci vedo più. Colpa mia, ho gli occhi chiusi. Vorrei riaprirli quando tutto sarà finito, ma mento. La paura mi rende vigile: ho bisogno di sapere dove mi trovo, dove mi stanno portando.
Qualcuno mi prende la mano e affondo le unghie nella sua pelle. Non vorrei gridare, dicono che sia importante ricordarsi di respirare.
Chi abbiamo nella pancia? È la proprietaria della mano a parlare. È una ragazza più giovane di me e con i capelli raccolti in una treccia rossa. Ha la pelle liscia, sulle palpebre una linea sottile di matita nera. Non porta lo smalto, né la fede. Sul polso un bracciale troppo stretto.
Un bambino o una bambina?
Mi sorride, io non riesco a ricambiare.
Noi… non avevamo ancora pensato a un nome. Pensavamo di… pensavamo che mancasse ancora tempo. La voce esce a ritmo spezzato, poi più veloce, tra un respiro trattenuto e l’altro.
Forse è il caso di scegliere. Oppure puoi aspettare di vederla in faccia.
Come ti chiami? le sussurro, mentre una nuova contrazione immobilizza le mie gambe e mi incurva la schiena.
Benedetta.
È un bel nome, di buon auspicio, dice l’uomo.
Annuisce, Benedetta, guidando il mio respiro.
Sfiliamo davanti a un medico con la tuta verde. Si passa una mano tra i capelli e deforma il viso in uno sbadiglio a malapena trattenuto.
Lui è qui per l’epidurale, dice Benedetta, mentre il dolore scema e finisce.
Le tiro il braccio, lei mi si avvicina. Ho scelto, le dico. Ho scelto chi c’è nella mia pancia: Benedetta. Mi piacerebbe che un po’ ti assomigliasse. La ragazza mi lascia la mano e mi fa una carezza sul viso. Si allontana di un passo. Vorrei fermarmi, dice, ma mi aspettano in reparto. Ti aspetto in stanza, più tardi, a salutare te e la tua bambina.
Grazie, Benedetta.
Sparisce fuori dalla sala parto.
*
Eccoti. Finalmente sei tornato a casa. Ogni volta che te ne vai il tempo sembra scorrere a una velocità diversa. A volte rimane fermo, altre scivola indietro e ancora più indietro. Lasci che il portone si chiuda e poi appoggi le spalle sul legno. Lo so che lo fai sempre, perché sento il meccanismo in ferro vibrare. Ti trovo così, con gli occhiali da sole ancora in faccia, il viso rivolto verso l’alto. Sei così assorto nei tuoi pensieri da non accorgerti che mi sono avvicinata. Ogni tanto penso che non ti accorgi più di me.
Ciao, sei tornato.
Non è una considerazione originale, ma rompe il silenzio. Non siamo costretti a sopportarlo, e per vincere questi attimi di imbarazzo basterebbe parlare e dire qualcosa – qualsiasi cosa ci passi nella testa sarebbe sempre meglio del nulla.
Come è andata? Tutto bene?
Odi quando rispondo per te, quando il bisogno di rassicurazione è più forte di quello di verità.
È andata.
Faccio un passo verso di te, tendendo le mani. Non ti muovi, non mi abbracci.
Tu? Hai riposato stamani?
Poco. Continuava a piangere.
Capisco.
Non so come tu sia riuscito a dormire tutta la notte senza essere svegliato. Raggiunge livelli così acuti che a volte penso possa infrangere le finestre. Dovresti vedere come diventa tutta rossa, quasi blu. Sembra che le manchi il respiro.
Ok.
Dici solo ok. Poi aggiungi: adesso, scusa, ma devo andare in bagno.
Non chiedi se ho bisogno di qualcosa, magari di un cambio. Non mi chiedi perché quel pianto mi ha tenuta sveglia; io mi chiedo come tu abbia fatto a continuare a dormire senza sentirlo. Mi sfili accanto con gli occhiali scuri ancora addosso, e te ne vai.
È quasi sera, e il cielo fuori dalla finestra è cupo e coperto. Mi manca quell’azzurro infinito nei tuoi occhi.

*

Allora ci siamo. È arrivato il momento del parto. Sono pronta? Devo essere pronta. Mio marito invece no: è in ritardo, come sempre. La scusa del parcheggio che non si trova. Cosa non si inventerebbe per risparmiare qualche spicciolo, a discapito di tutto il resto. Poteva rischiare di perdersi questo momento.
È la volta buona, gli dico.
Sorride, gli occhi ancora annebbiati dal sonno, come la consistenza pastosa di un bacio che mi adagia fuggevole sulle labbra.
Tra poco conosceremo Benedetta.
Hai scelto, allora?
Annuisco.
Ti piace? Il nome, dico.
Fa spallucce. Se piace a te, piace anche a me. Mi fissa, poi sorride.
Un attimo dopo, una contrazione.

*

Quando vuoi, è pronto.
Nella cucina l’aria è più calda, eppure mi avvolgo nella vestaglia. Sprofondo tra la lana soffice: ha il colore del vino più corposo e il profumo di mughetto. I suoi occhi spenti, la luce troppo violenta. Mi porto le mani al viso.
Hai di nuovo mal di testa?
Un po’.
Dovresti chiamare il medico.
Mi imbottirebbe di farmaci e ora non posso.
Non vuoi.
Si siede, mangia.
Cerco di imitarlo, afferrando la forchetta e portandola alla bocca.
Non mi chiedi niente?
Di cosa?
Di Benedetta.
Dimmi, dai. Sospira guardando altrove.
Be’, potresti mostrare un po’ di interesse per tua figlia.
Ne abbiamo già parlato…
Ha pianto tutta la mattina e buona parte del pomeriggio. Piange sempre, non si calma mai. A volte non so come fare. Vorrei che tu fossi più presente per aiutarmi.
La forchetta cade sul piatto e il piatto si sbecca. Mi guarda come se non mi avesse mai visto prima. Quando finirà questa storia? Nella sua voce non c’è niente: né compassione, né amore.

*

Sfioro il corpo di Benedetta e il suo viso. Ha gli occhi chiusi, le guance morbide. È nata con pochi capelli biondi. Le verranno i riccioli, un giorno, quando sarà più grande.
Il telo verde la avvolge insieme alle mie braccia. Il suo volto tra i seni, la sua pancia sulla mia pancia. Pensavo di sentirmi rotta, lacerata nella metà destra e in quella sinistra.
Scusi.
La dottoressa non mi ascolta.
Scusi, ripeto a voce alta sperando di non spaventare la mia bambina.
Si avvicina un’ostetrica e mi fissa con i suoi occhi neri. Riesco a vedere il loro luccichio nonostante la luce non sia violenta come nel corridoio.
È ora che tu torni in stanza. La bambina, invece, deve rimanere con noi.
La ignoro.
Mi sembra che sia fredda. Forse dovreste prepararla, vestirla insomma. Le ho portato l’abitino bianco insieme al camicino della felicità. Sono nel mio borsone.
Porta una mano alla bocca e agli occhi, si allontana senza dire niente.
È gelida! Non riesco a scaldarla!
E poi mi sembra pesante, più pesante di prima. Anche le sue guance sono meno morbide.
Qualcuno può aiutarmi?
Arriva una dottoressa che non avevo visto. Me la prende dalle braccia e il corpo di mia figlia non si scompone. Resta come l’avevano messa prima: immobile e fredda.

*

Quando è nata, ha pianto. Solo una nota, un accenno breve. Era tutta blu, poi l’hanno liberata.
Perché non piange? ho gridato.
Ha emesso un lamento e io ho tirato un sospiro di sollievo. È viva, sono viva. Ho riso, mentre le loro espressioni si facevano più cupe.
Presto, la dottoressa…
Che succede? Che succede a Benedetta?
Non hanno risposto.
Andrà tutto bene?
Deve andare tutto bene.

*

La notte il pianto di Benedetta mi tiene sveglia. Anche la mattina e il pomeriggio. A volte mi chiedo come tu non riesca a sentirla. Io ce l’ho ancora nelle orecchie quell’unico suono: il saluto che mia figlia ha dato al mondo prima di morire. Appena nata, già morta: una contraddizione impossibile da comprendere e accettare.
L’hanno seppellita in una fossa senza nome. Aveva addosso il suo abitino. Hanno detto che sembrava una piccola sposa, o un angelo. Ho risposto che non c’è posto per l’amore o per un dio nella mia vita, non dopo quello che è successo a Benedetta.
So che cosa pensano: che sia colpa mia. Che non sia riuscita a proteggere mia figlia, e che quindi non ne ero degna. Lo pensi anche tu quando nascondi dietro alle lenti scure la tua rabbia e il tuo disprezzo, perché non sei più in grado di amare una donna con uno spettro che la tormenta.
Entri in casa, appoggi la schiena sul portone. Sospiri, guardi verso l’alto con gli occhi ancora coperti dagli occhiali scuri.
Come è andata? ti chiedo, e tu non ricambi la domanda.

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