Cicale e formiche

Enrico Marinaro

«Il calcio non mi piace ma mi serve, e gli oriundi non mettono in discussione
l’autarchia, non lasciamoli tutti alle rivali! »
«Eccellenza, provvederò! »
Il presidente del Bologna scattò nel saluto romano e, sudato, si congedò.
La Juventus era stata fulminea ad assicurarsi i migliori argentini di origine italiana,
Genoa e Torino l’avevano seguita a ruota.
La Romagna, comune terra di origine (col Duce un tempo si davano del tu), non
aveva una squadra in grado di competere, occorreva dunque, per prossimità,
sostenere il glorioso Bologna, rafforzandolo con un po’ di estroso talento
d’oltreoceano.
Convocò El Filtrador, nel suo caso il soprannome straniero era ammesso.
Era il faccendiere dei due mondi, capace di insinuarsi, tra un emisfero e l’altro, nel
posto giusto al momento giusto.
«Punterei sul versante orientale dell’estuario».
«L’Uruguay è un paese minuscolo!» protestò il presidente.
«Oggi il fútbol rioplatense è il migliore, ma il fiume che lo unisce è anche quello che
lo divide».
«L’Argentina è almeno 15 volte più grande!»
«Gli argentini sono cicale, gli uruguagi formiche, gli argentini attaccano, gli
uruguagi segnano. E vincono le Olimpiadi».
«Me ne sbatto delle Olimpiadi, è con lo scudetto che si fa politica!»
«Come sapete, l’anno prossimo il primo Campionato del Mondo si giocherà a
Montevideo».
«E sia, ma voglio il più bravo!»

Bevve un sorso di mate e alzò la posta.
«Al triplo della paga del Peñarol e alla villa in collina, aggiungo la decappottabile».
«Sono fiero delle mie origini, il nome della squadra viene da Pinerolo, ma non posso
diventare italiano, tengo troppo alla camiseta celeste della Nazionale, noi siamo Los
Invencibles» rispose Hector Crosa.
El Filtrador annuì, un po’ se l’aspettava, affrontando l’Uruguay non si giocava in
undici contro undici, l’avversario era un intero popolo.
Guardò i bei palazzi art déco intorno a piazza Indipendenza.
Pagò il conto, salutò Hector e, nella sera calante, attraversò la Ciudad Vieja fino al
lungomare di Montevideo.
La città si mostrava ordinata e fiorente, degna capitale della Svizzera del Sudamerica.
Per i bonaerensi, probabilmente, fin troppo ordinata, anzi noiosamente europea.

Ci era nato e cresciuto tra quelle case variopinte.
Annusò l’odore di fainà, di farinata ligure, che si diffondeva tra i vicoli.
I messicani discendono dagli aztechi, i peruviani dagli incas, noi argentini dalle
navi, suo nonno glielo ripeteva spesso, quindi prendeva a raccontargli della lontana e
orgogliosa città da cui erano partiti i fondatori del quartiere.
El Filtrador teneva al suo sangue genovese.
Varcò la soglia della milonga e si sedette ad ammirare la dea del tango, la regina de
La Boca.
Beba Nives era circondata da una serie di ballerini, passava da uno all’altro, ogni
volta con una nuova figura.
Volse per un attimo la testa e lo squadrò, poi si girò e riprese a esercitarsi, la schiena
nuda, le lunghe gambe che forzavano lo spacco del vestito.
A un cenno di Beba, la musica cessò e i ballerini si allontanarono.
Lo invitò al centro della sala, a un altro cenno partì un ritmo di canyengue.
Lui non sbagliò un passo.
«Sei rimasto un vero boquense».
«All’anagrafe Ida Nocella, discendenza abruzzese, giusto?»
«Partirono con una capra e le scarpe rotte, voglio tornarci in decappottabile».

Il natante, guarnito di fregi e dorature, solcava l’estuario, la Confederación
Sudamericana de Fútbol festeggiava il terzo lustro di vita.
Al centro del ponte, la coppia più ammirata.«Sei un campione anche nel ballo» disse Beba in italiano.
«Ma a te non riuscirei a dribblarti» rispose Hector con accento piemontese, reggendo
a fatica quello sguardo di brace.
«Sei mai stato in Italia?»
«Ne ho sentito parlare dagli anziani, so che è a forma di stivale».
«Una forma elegante, come il tuo gioco».
I cronisti sportivi rioplatensi si scatenarono, i fotografi pure.
La punta di diamante del Peñarol e la regale tifosa del Boca Juniors pelle a pelle in
un tango di confine. El Filtrador avrebbe volentieri evitato il clamore della stampa,
ma era l’unico modo per farli incontrare.

Tornò ad apprezzare gli edifici art déco e bevve un sorso di mate.
Puntuale, comparve l’imponente figura di Angel Grossi, El Mariscal.
Il capitano della Celeste gli si sedette di fronte.
Da vicino era evidente il taglio indio dei suoi zigomi, eredità del popolo charrúa.
«Conosci il nostro motto?»
«Gli altri, non esistono. Hector non viene?»
«Conosci l’inizio del nostro inno?»
«La Patria o la tomba. Qui però si tratta di calcio».
«Siamo piccoli, ma sogniamo da giganti, il nostro sogno è la Nazionale».
«Hector cosa ne pensa?»
«Conta la volontà del gruppo, è il prezzo dell’invincibilità».

Nevicava il 30 luglio 1930, quando prese posto sugli spalti del Centenario di
Montevideo. Era stata dura procurarsi il biglietto per la finale della Coppa del
Mondo.
El Mariscal arringò i compagni, la squadra urlò il suo motto.
Hector si sistemò la camiseta.
Il tango con l’Argentina stava per cominciare.

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