Elisa aveva l’impressione che tutto nella sua vita cadesse nel vuoto. Tutto tranne i gatti, forse. Quelli camminavano sul pelo dell’acqua senza precipitare, come il Messia. A Karuscia, sulla costa a nord est dell’isola, il mare era casa: ogni suo angolo era come un angolo del dammuso dei nonni, un angolo amato. Dentro ci si sentiva come quando rientrava in camera stanca e si buttava sul letto: lei, protetta. Il suo corpo si muoveva a fatica e lei a fatica ci si muoveva dentro, quasi a rallentarla fosse l’attrito con l’aria. La voce non arrivava quasi mai in soccorso ai suoi pensieri, ma per fortuna c’era la penna, a volte. Allora era prezioso poter scrivere di qualcosa. Di Ale, ad esempio, attaccato ancora alle piante del giardino, alle foglie, che ognuna nel vento suona diversa; ai grandi, schifosi ragni, e ai pesci che lui guardava con così tanta curiosità.
L’ultima volta che l’aveva raggiunta a Pantelleria per le vacanze si era scottato. Era stato cinque anni prima. Sua nonna aveva staccato una foglia di aloe da una pianta sul davanzale, l’aveva sbucciata e gli aveva passato il gel sulla schiena. Lui era rimasto in silenzio con le ginocchia rannicchiate sul petto e la testa chinata in mezzo, sul muretto più esterno della casa verso la strada e gli scogli. Al ritorno dal mare la zia di Elisa, Anna, si era messa a ridere a vederli così, tutti e tre in silenzio, assorti in quella specie di rito che nel sole delle otto di sera sembrava solenne. Ale si era vergognato e sua nonna aveva lanciato un’occhiataccia alla zia. A ottant’anni le era bastato uno sguardo per comprendere tutta la delicatezza di quel ragazzo lungo e bianco di cui sua nipote si era innamorata – tutti e due poco più che ventenni – con i riccioli di un castano chiarissimo che gli coprivano parte del viso. All’inizio aveva pensato di dire qualcosa, ma poi non aveva mai trovato le parole giuste e la casa aveva preso il sopravvento.
Alma c’era abituata. Negli ultimi cinquant’anni non aveva mai chiuso la porta, e la gente guariva. Passavano intere famiglie, unite, spezzettate, amiche, stranieri, ragazzini. Si affacciavano per raccontarsi, chiedere consiglio, portare l’olio nuovo e i pomodori e farsi asciugare qualche lacrima intrisa di crema solare. Il giardino dei Benziger – quel labirinto di agrumi, cactus, erbe aromatiche e melograni – era un luogo sicuro per tutti, con dentro quei due vecchi signori, lei e suo marito, sempre affaccendati intorno alle piante e sempre disposti a sedersi, a offrire un bicchiere di latte e menta o una granita alle mandorle. In autunno, quando ripartivano per Milano, l’isola tutta si sentiva un po’ smarrita, come un bambino lasciato controvoglia in collegio per i mesi invernali.
Di certo adesso non si sarebbe lasciata scoraggiare dal languore di quei ragazzi magri dall’aria un po’ spaesata, tutti e due di una bellezza bambina, dorata. Elisa l’aveva cresciuta lei, d’estate. Le aveva insegnato il nome dei fiori e dei pesci e aveva passato pomeriggi interi a osservare la sua testa fare capolino dal pelo dell’acqua, allontanarsi all’orizzonte e restare immersa per secondi che sembravano minuti, ore, fino a veder rispuntare una manina che reggeva il guscio opalescente di una conchiglia. «Guarda, nonna! Ho trovato un altro orecchio di Venere!».
Ora c’era Ale a guardarla nuotare. Così giovane, nemmeno lui riusciva a reggere i suoi bagni infiniti, troppo lontani e profondi. Si tuffava con lei per qualche minuto, poi risaliva sugli scogli a riprendere fiato e lì si scottava, abituato com’era al sole pallido di città.
Di notte Alma sentiva il suono della sua chitarra scivolare basso dalla camera in fondo al giardino, la più lontana. Sentiva solo la voce di Ale, mai quella di Elisa. Immaginava sua nipote rannicchiata in un angolo della camera come un animaletto, la bocca socchiusa e un’aria incantata, ad ascoltare le canzoni strane del fidanzato sulla forma delle nuvole e sul mondo che oscilla, col suo pavimento scivoloso.
Per tutta l’estate a Elisa era sembrato di avere quattro occhi, i suoi e quelli di Ale, per osservare le rocce nere del suo pianeta familiare, così dolce e insieme così primitivo, marziano. Mentre lui dormiva rimaneva sveglia a lungo a ripensare alle immagini del giorno: le murene fini dalla testa piccola, i pesci simpatici con lo stomaco luminoso sempre appiccicati alle murene, che coppia!, e poi il vento salato, l’odore delle alghe di mare, i pescatori intorno al porto e i culi dorati dei camion sciabordanti di pesce. A casa, la sera, si muoveva tutto e tutto fuor d’acqua e perciò faceva un rumore feroce. Sua sorella Eleonora con la pelle bruna di sole, sempre affamata; la zia Anna, ancora bellissima, che d’estate si spingeva sin laggiù solo per guardar crescere Elisa. Alle nove giravano tutti per la cucina intorno ai nonni, avvezzi al disordine e al bollore delle pentole sui fornelli, al chiasso di figlie, nipoti, cani, ospiti. Elisa non riusciva a fare niente, nemmeno a portare i piatti in tavola. Si sentiva sopraffatta da quel brulichio. Preferiva starsene seduta contro il corpo di Ale a guardarli passare, coi loro tic e le loro incomprensioni rumorose che però si riassorbivano subito. C’era chi sapeva tritare meglio i capperi, chi si scontrava sulla questione del condimento della mozzarella, chi non voleva sedersi accanto al tal dei tali perché la settimana prima era stato sgarbato. Eppure in un attimo, a tavola, quando sua nonna si sedeva e alzava il primo bicchiere, svaniva tutto in un brindisi giallo.
Per fortuna arrivava la notte per riavvolgere il nastro e respirare. Allora, finalmente, c’era tempo per pensare al suo mare, vivo anche a quell’ora sebbene nessuno se ne rendesse conto; le creste delle onde tante facce che si alzavano dal corpo a guardare, a giocare. Quando era calmo respirava regolare, come Ale. Elisa in quel caso entrava senza fatica nei suoi sogni tranquilli, opalescenti. Altri giorni invece li trovava torbidi, sogni infestati, tanto da disturbare il sonno piatto, la pelle liscia dell’acqua. Uscivano dalle profondità, si agitavano in superficie nudi tra le coperte e il vento. I sospiri, le increspature fini si gonfiavano, si rizzavano bianche, quasi si svegliasse, quasi fosse desto, vero, il mare, e respirasse a pieni polmoni l’aria. I suoi sogni, però, erano sempre silenziosi. Anche quando era furioso, nella sua pancia non c’era rumore. E più si scendeva e più era silenzio, e i sogni diventavano assurdi, e gli animali sempre più trasparenti, lenti, fluo. Con gli occhi viola. Più si scendeva e più il ricordo del cielo svaniva, muto, lontano. L’orizzonte non era più una linea incurvata ma un punto giù, in basso, la sua pancia che inghiottiva freddo.
Quell’anno, al ritorno a Milano, Ale l’aveva lasciata. Aveva bisogno di suonare la sua chitarra da solo, trovare le parole, trovare insomma qualcosa, una sponda. Lei sembrava sempre abbandonata al largo, senza funi, imprendibile. Non la capiva, non se la sentiva sotto le mani. A volte a guardarla aveva paura, si sentiva solo e sapeva per certo che accadeva lo stesso anche a lei. Con le braccia distese lungo i fianchi, immobile, Elisa gli aveva chiesto se poteva portarsi via il gatto, che voleva più bene a lei. Lui le aveva detto di sì e quindi si erano abbracciati, poi dispersi.
Dopo, a Milano, l’inverno era stato una prigione. C’erano troppe-troppe persone, una accalcata sull’altra, in fila. Correvano, non le parlavano, ed Elisa si dimenticava cosa volesse dire stare con qualcuno. Soprattutto non c’era mai silenzio e questo la innervosiva. Andava a cercarne un po’ alla piscina comunale, due, tre, quattro ore il giorno, ma era stretta, un acquario, e comunque a un certo punto doveva uscirne. L’inverno successivo aveva preferito rimanere sull’isola, e poi quello dopo ancora. Ormai a Milano tornava di rado, giusto per abbracciare sua madre, andare in biblioteca, tagliarsi i capelli. L’università se n’era andata senza un senso coi suoi tomi di filosofia e lei ormai desiderava solo stare sull’isola per tutto il tempo.
Io e Nicola l’avevamo conosciuta pochi giorni dopo il nostro arrivo a Pantelleria, all’inizio di ottobre. Se ne stava in piedi sotto l’insegna Informazioni che dondolava nel maestrale giù al porticciolo di Gadir, sopra il chiosco delle immersioni subacquee. A Ustica, qualche giorno prima, avevamo fatto la nostra prima immersione, “il battesimo”, e avremmo voluto replicare lì, dove terminava il nostro viaggio estivo. Mi ero avvicinata da sola al bancone mentre Nicola faceva il bagno nelle pozze di acqua calda. Elisa non aveva alcuna informazione da darmi, il che cozzava comicamente col cartello che gli dondolava sulla testa. Non sapeva niente di prezzi e orari, però aveva tirato fuori da dietro il bancone una pietra colorata e mi aveva detto che era possibile fare favolose immersioni notturne nel museo archeologico sottomarino, vedere le anfore romane con la torcia e trovare di quelle pietre lucenti, che sembravano cadute dalla luna in briciole. Più tardi sarebbe tornato Francesco, il titolare dell’attività, e avrebbe saputo dirci qualcosa. Lei stava solo lì di guardia mentre lui era fuori con la barca in cambio di qualche immersione gratuita.
Con Nicola non abbiamo aspettato Francesco. Saremmo ripassati un altro giorno, intanto era meglio andare a vedere il tramonto alla Balata dei Turchi, a sud dell’isola, sederci sulla spianata di roccia bianca protesa verso il mare. Quella sera, prima dell’ultimo sole, c’era tempo per nuotare un poco intorno all’insenatura, intrufolarsi in qualche grotta e vedere le stelle marine, le meduse con il filo rosso. Nicola era coraggioso, io no. Avevo freddo e paura di farmi male, cercavo gli animali con lo sguardo, inciampavo. Al ritorno abbiamo trovato Elisa seduta a fior di scoglio nella grotta più vicina alla Balata. Nuda, con le braccia distese all’indietro e la testa rivolta verso il basso. Quando l’avevo chiamata era scivolata in fretta dietro lo scoglio ed era riapparsa con il costume indosso e un sorriso graduale, prima un po’ timido. Le avevo presentato Nicola, e al suo nome si era subito illuminata. «Nicola. Come Cola pesce». Più tardi ci aveva invitato a casa sua e ci aveva raccontato la storia del bambino che a forza di stare in acqua si era fatto pesce, finché un giorno non era più riemerso dal mare. Teneva in mano il libro di Calvino dov’era narrata la leggenda e lo leggeva lentamente, una sillaba dopo l’altra: «Una volta a Messina c’era una madre che aveva un figlio a nome Cola, che se ne stava a bagno nel mare mattina e sera.»
Noi, intanto, ci muovevamo per la prima volta nella casa dei Benziger, ormai deserta, piena di ombre azzurre come il ventre di una nave affondata. Ci sembrava enorme per una persona sola e specialmente per lei, che occupava così poco spazio a questo mondo. Da quando il nonno era morto, tre anni prima, sua nonna aveva smesso di venire sull’isola d’estate. Ormai ci venivano solo sua sorella Eleonora e zia Anna, qualche volta, ma preferivano affittarsi un dammuso più piccolo da qualche altra parte, lontano dai ricordi cari di quando il giardino era vivo. Il padre di Elisa faceva il medico in città e non metteva piede sull’isola da anni. Ogni giorno le telefonava per sapere se avesse mangiato, se si fosse lavata i denti e avesse visto qualcuno. La madre stava accanto a lui e ascoltava in silenzio, poi le diceva di non stare troppo in acqua.
Da quando Elisa era l’unica inquilina, insieme a uno sciame di gatti, le lunghe stanze collegate una all’altra si erano trasformate in una pinacoteca di conchiglie, ossi di seppia, scaglie d’ossidiana, e noi le navigavamo un passo alla volta, incantati, soffermandoci sulle poesie di Elisa appese alle pareti, sulle sue parole poggiate appena sul foglio e dedicate ai coralli, alla casa, a sua nonna. Di tutto quello spazio, per sé si era scelta un lettuccio infrattato in un’alcova vicino alla cucina, coperto di libri per metà.
Quella sera, mentre mangiavamo la pizza sul tetto del dammuso, ci aveva raccontato della storia con Francesco, il titolare della scuola di immersioni dove l’avevo incontrata. Dopo la rottura con Ale l’unica cosa che le aveva dato gioia erano state le escursioni sott’acqua; voleva diventare un’insegnante, una “divemaster”, andare sempre più a fondo. Lui la portava con sé almeno due o tre volte a settimana e le aveva insegnato un esercizio segreto per baciarsi sott’acqua, tenendo il boccaglio con la mano per qualche secondo. Elisa era bravissima in quell’esercizio, tanto che a volte lui doveva insistere perché a un certo punto se lo rimettesse. Fuori dall’acqua, al ritorno dalle escursioni, ad aspettare Francesco c’era la sua fidanzata, seduta col pancione di otto mesi su una sedia di plastica davanti al chiosco. Mangiava gelati e diceva «sono stanca, amore, andiamo a casa.»
Elisa non lo amava, questo no, ma quello sfiorarsi di corpi sotto la superficie la ossessionava, faceva fatica a staccarsene, a non ripensarci. Poco male, comunque. Alla fine del mese Francesco sarebbe tornato a Palermo per il parto della sua ragazza, non si sarebbero visti più.
Quella sera io e Nicola ce ne siamo andati con una tenerezza tutta nuova in mezzo al cuore, e nei mesi successivi abbiamo visto Elisa sempre più spesso. Avevamo deciso di rimanere sull’isola per qualche mese, alla fine. Di là dal mare impazzava la pandemia, mentre di qua la vita era quella di sempre, o quasi: niente mascherine, tamponi, terrore di infettare qualcuno di caro. Avevamo trovato in affitto una casa per l’inverno e passavamo le giornate a lavorare e a studiare al computer. Ogni momento libero, però, era per i boschi, i fumi caldi della montagna, le vallate scandite da vigne simmetriche e alberi da frutto. Nel fine settimana raggiungevamo Elisa in giro per i sentieri, sempre china a raccogliere pietruzze, pezzi di legno, bacche rosse e blu, piccole cose che si infilava in tasca dicendo che le avrebbe incollate da qualche parte. Camminavamo con lei per mano, la lasciavamo scivolare docilmente in mezzo nostro amore, ripensando più tardi, da soli, al suo viso perlaceo, la pelle quasi trasparente, gli occhi verdastri che sembravano aprirsi su sé stessi come una serie di specchi.
A quelle passeggiate aveva preso a unirsi Sebastian, un argentino che era arrivato quell’autunno sull’isola per ristrutturare una casa. Era un architetto di una quarantina d’anni un po’ randagio, con gli occhi azzurri e una faccia grande, ridente. Aveva fatto in fretta amicizia con Nicola, capace di parlarci fluidamente nella sua lingua, subito pronto a condividere l’abitudine di Seb di intercalare ogni frase con un “che”. Elisa aveva trovato un altro corpo su cui riposare, finalmente, a cui affidare i pensieri del pomeriggio, dopo aver fatto l’amore.
Verso metà novembre avevamo preso a incontrarci tutti e quattro in un hotel abbandonato nel nord dell’isola. Dentro era tutto intatto, come se i proprietari lo avessero lasciato all’improvviso, con i letti rifatti e le tazze capovolte sul tavolo accanto a una selezione di tisane di benvenuto. In una stanza avevamo trovato diversi barattoli di vernice, ed Elisa e Sebastian avevano passato giorni a disegnare polipi e squali sui muri e a dipingersi i corpi tra loro. All’ingresso, tra due vetrate da cui si vedeva il mare, c’era persino un pianoforte, un modello vecchio ma ancora in gamba con cui Nicola ci faceva ballare. Erano pomeriggi in cui ci amavamo moltissimo tutti quanti, tutti insieme.
Poi un giorno, dopo Natale, Seb si era dichiarato stanco dell’isola. Forse avrebbe fatto un giro da qualche parte, magari risalendo l’Italia. Iniziava a sentirsi stretto e voleva rimettersi in moto. A Elisa aveva detto che era una ragazza bellissima, a noi che era troppo giovane e troppo strana per pensare a qualcosa di serio.
«Che, a volte mi sembra che parli un’altra lingua», aveva detto a Nicola l’ultima sera, già in direzione del porto. «Una che non può imparare nessuno.»
Dopo la partenza di Sebastian, Elisa aveva ricominciato a nuotare a lungo, come faceva d’estate. Nicola aveva provato a seguirla per farle compagnia, ma ormai faceva troppo freddo e stare in acqua più di qualche minuto era doloroso. Nicola si dispiaceva di non essere davvero come il ragazzo siciliano della storia, Cola pesce, ma lei gli mandava un bacio dall’acqua, diceva di non preoccuparsi. Stava bene anche da sola, sotto. Allora il massimo che potevamo fare era aspettarla seduti sugli scogli, la domenica, per allungarle un asciugamano e farle una carezza.
Con la primavera, infine, era arrivato anche per noi il momento di lasciare l’isola. Nicola doveva occuparsi dell’albergo di famiglia che era rimasto chiuso a causa della pandemia e che adesso poteva riaprire. C’era da sistemare la cucina, rinfrescare le camere, potare le rose in giardino.
«Vieni via con noi», le avevamo detto, ma la proposta era caduta nel vuoto.
L’ultimo giorno abbiamo accompagnato Elisa alla Balata dei Turchi. Aveva gli occhi dello stesso colore dell’acqua – grigi, verdi, viola, neri – e un’aria felice che non le avevamo mai visto. Ci siamo abbracciati tutti e tre sulla roccia bianca, le abbiamo baciato la testa. Per un istante abbiamo sentito anche noi quell’attrito con l’aria che presto sarebbe svanito insieme al rumore, insieme alla fretta e all’ansia e alle aspettative della gente che sono cose della terra. Siamo rimasti ancora qualche minuto in piedi, gli occhi strizzati nel tramonto aguzzo, fino a vederla scomparire oltre la baia. Sott’acqua. Dove tutto, finalmente, parlava la sua lingua.