Il 20 dicembre del 1994 il mio piccolo mondo crollò.
Avevo sette anni quando successe e anche se ero ancora un bambino avevo già capito. Tutto sarebbe cambiato. Avrei avuto sempre bisogno di lei, dei suoi «va tutto bene Andrea» dopo le mie cadute in bici o dei suoi baci delicati mentre mi metteva la crema dopo la doccia. Avrei avuto bisogno dei suoi abbracci forti quando correvo da lei impaurito dopo aver visto, dalla finestra di camera mia, il primo lampo che sarebbe scoppiato in un tuono. Avrei sempre avuto bisogno di lei, ma il destino, o meglio, la sua “peggior nemica”, come la chiamava, aveva altri piani per noi, così decise di portarla via da me. Quante cose avrei voluto raccontarle, quante domande. Quante volte sognavo i suoi occhi verdi come l’erba del mattino senza poterle più dire niente.
Mi era rimasto solo quell’uomo medio, trasandato ed infelice, che chiamavo papà. Vedovo troppo presto, mi aveva cresciuto come un padre che, da solo, tirava su un figlio maschio senza porsi troppe domande. Che crescessi forte, indipendente e dedito alle donne era un fatto piuttosto scontato, tanto che lo credetti l’unico modo di essere uomo. D’altronde, come potevo pensare diversamente? Avevo sette anni e non sapevo che potessero esserci altri modi…
Ricordo esattamente il giorno in cui la vidi. Allora pensavo fosse la prima volta. Fluttuava delicata e libera tra i corridoi della scuola superiore Barsanti e Matteucci. Sembrava sfilasse per permettere agli altri di assaporare a pieno la sua bellezza e per fare invidia a tutte quelle ragazze che, seppur belle, avevano qualcosa di completamente diverso da lei, dalla sua grazia. Quando i miei amici si accorsero che la stavo guardando risero fragorosamente. Io chiesi perché.
«È Claudio, quello gay. Dicono che sia diventato una donna e che si faccia chiamare Claudia, pensa un po’ come sta messo. Si vede che non gli bastava essere preso in giro per quello.»
Le loro parole mi fecero riflettere. Rimasi per qualche secondo ad osservarla sparire tra la folla. Non capivo come potesse essere Claudio. Mi ricordavo bene di lui. Fino a poche settimane fa era un uomo. Si era trasformato in una donna, per giunta bellissima.
Passai il resto della giornata a pensare a Claudia. Non riuscivo a capire perché i miei amici avessero riso di lei. Certamente all’epoca non era così comune vedere in giro un ragazzo transessuale, ma perché deriderlo per forza? Qual era la ragione? Parevano animati da un odio comune di cui non capivo il senso, pur sforzandomi.
Il giorno dopo, per frenare tutti quei pensieri e cercare di dare delle risposte alle mie domande, decisi di fare una cosa che, fino a quel momento, non pensavo avrei mai avuto il coraggio di fare. Andai da Claudia. Avevo un’agitazione di stomaco strana, forse perché temevo che qualcuno mi vedesse e potesse farlo sapere in giro. Arrivato davanti a casa sua, già mi sentivo addosso gli sguardi giudicanti dei miei amici che mi chiedevano cosa ci facessi lì. Stavo per andarmene sopraffatto dall’ansia, quando la porta si aprì e spuntarono gli occhi più belli che avessi mai visto in tutta la mia vita. Blu come il mare in tempesta mi fissavano come se volessero leggermi l’anima e risucchiarmi nel loro mondo. Mi ripresi velocemente quando la sentii schiarirsi la voce. Sapeva chi fossi.
«Senti, se devi ridere di me puoi tranquillamente farlo domani a scuola, adesso ho da fare.»
Fece per chiudermi la porta in faccia, ma la fermai velocemente.
«No no no, tranquillo, ehm tranquilla, sono venuto in pace.»
Dentro di me volevo sprofondare nella vergogna, però restai lì. Fermo come uno stupido. Claudia mi guardava sorpresa. Così andai avanti.
«Scusa, hai ragione, non voglio farti perdere tempo, sono venuto perché ieri ti ho vista nei corridoi e gli altri mi hanno detto cosa hai fatto, così volevo solo saperne un po’ di più, tutto qui.»
Rise e io feci un passo indietro mentre mi preparavo alla peggior figura di merda di tutta la mia vita. Lei invece si ricompose e con la testa indicò il corridoio di casa.
«Accomodati», disse educatamente.
Ci sedemmo sul divano di casa sua e feci la prima di tante domande.
«Come hai capito di voler essere una donna?»
Rispose con un sorriso a trentadue denti. Sembrava che nessuno glielo avesse mai chiesto prima.
Mi raccontò di quando, da piccola, rubava i vestiti alla mamma. Disse che in qualche modo si era sempre sentita una donna. Passai tutto il pomeriggio ad ascoltare la sua voce delicata raccontare la storia della sua vita. Avrei potuto restare lì per l’eternità. Ero completamente perso nelle sue parole, quando, a un certo punto, decise di rompere la magia facendomi una domanda semplice, ma alla quale era difficile rispondere.
«Andrea, posso sapere veramente perché sei venuto fino a qui?»
Mi prese le mani tra le sue.
«Con me devi essere libero di dire tutto ciò che vuoi.»
Rimasi immobile al suo tocco, anche se dentro di me qualcosa si era mosso.
«Oh ehm… te l’ho detto, ero solo curioso.»
Guardai l’orologio e allontanai le sue mani dalle mie.
«Ora devo andare, si è fatto tardi», dissi e salutai frettolosamente.
Nel tragitto verso casa pensai molto alla sua domanda. Cosa ci facevo veramente lì? Perché c’ero andato? Sapevo la risposta pure se non volevo riconoscere la verità. A casa feci una doccia, quasi a levare di dosso quei pensieri. Poi mi guardai attentamente allo specchio e lì la vidi. Bellissima proprio come me la ricordavo. Mia madre. All’improvviso mi venne in mente che da piccolo mi vestiva spesso da femmina. Sapeva che non avrebbe mai potuto avere una bambina. Mi circondava la faccia con le sue mani affusolate, da pianista. «Andrea, sei bellissimo anche così, sai? La bellezza non sta in come ci si veste o in come gli altri ci giudicano: sta tutta in cosa ci rende felici.»
Al suo ricordo scoppiai in lacrime. Avrei voluto chiederle un consiglio o anche solo una parola di conforto, ma non potevo e certamente non avrei potuto chiederlo a mio padre. Figuriamoci. L’uomo birra e calcio. Non avrebbe nemmeno capito cosa stessi chiedendo. In ogni caso non mi importava niente di lui e di certo a lui non importava niente di me. Non mi chiedeva come stessi da almeno dieci anni.
Passai la notte a ripensare alle parole di mia madre. A sette anni non potevo capire, ma adesso sembravano chiare. Dovevo essere ciò che volevo senza paura di mostrarlo. Più facile a dirsi che a farsi, però. Il giorno dopo mi ripresentai a casa di Claudia. Quando mi aprì, a differenza del giorno prima, mi sorrise dolcemente.
«Speravo che la nostra conversazione non fosse finita qui, entra pure.»
In salotto, le mie mani indugiarono un po’ prima di aprire lo zaino. Estrassi piano un vestito nero con lo scollo a cuore ed un fiocco rosso sopra la spallina sinistra. Claudia mi guardò. Sorrise. Aveva già capito tutto.
«Sai, ieri mi hai permesso di ricordare cose che pensavo fossero solo sogni. Mi hai fatto capire che molte cose si imparano, ma molte altre si sanno e basta. So di voler essere coraggioso come te. Ti va di aiutarmi?»
Claudia prese la mia mano senza dire niente e mi portò in camera sua.
Mi fece sedere sulla sedia davanti alla scrivania. Posò il vestito sul letto. Chiusi gli occhi e mi fidai di lei.
«Fatto» disse infine, passando l’ultimo filo di mascara sui miei occhi.
Indossai il vestito con il suo aiuto e scoppiai immediatamente in un pianto di gioia e paura, guardandomi allo specchio.
Mi sentivo completo e bellissimo. Leggero. Quella fu la prima volta che ebbi coraggio. Mi ci vollero mesi prima di poterlo dire a qualcuno all’infuori di Claudia; anni prima di mostrarmi a tutti per quello che ero.
Fortunatamente, ci riuscii. Oggi posso dire di vivere la vita con la felicità che mia madre riteneva bellezza. Sono sposato con Claudia ed ho lasciato la casa di mio padre. Oggi sono Andrea, un uomo felicemente felice.