Maria si alzava ogni giorno sempre alla stessa ora, che fosse inverno o estate, caldo o freddo, sempre alla stessa ora, alle 7:30 di ogni giorno. Tranne i giorni delle piccole pause, le ferie o la malattia, Natale o Pasqua.
Alle 7:30 il suo respiro si concretizzava con quello del mondo. Il suo appuntamento fisso con l’inizio e con la fine.
Prendeva il caffè e la nave da guerra per affrontare la vita.
Maria aveva perso tante cose.
La memoria per prima cosa. Sì, la memoria. Ma non l’aveva proprio persa: in realtà non l’aveva mai avuta, fu quella per prima che le fece abbandonare i sogni.
Sin da bambina, la sua memoria assente la faceva sentire difettosa. Tutto ciò che imparava, sia a scuola che nella vita, non rimaneva, le informazioni non attecchivano nella sua mente, lei cercava di afferrarle come faceva con le farfalle al parchetto dei cigni, ma queste se ne andavano e finivano chissà dove. Alle volte si infilava due dita in gola sperando che venissero fuori, si guardava dentro e si scopriva come una scatola vuota. Una persona che non ha memoria, si era detta, non è capace di nulla.
Maria aveva perso tante cose.
Quell’entusiasmo che da sempre la caratterizzata, il bisogno di riscatto che bruciava sotto le vene e la voglia di trovare il suo posto nel mondo erano stati sostituiti da una vita scandita da giorni tutti uguali, che non le appartenevano, squallidi di noia, dolorosi, persi di senso.
Le pareva di affogare.
Peggio.
Le sembrava che qualcuno, giorno dopo giorno, stringesse sempre di più quel sacchetto di plastica che aveva legato intorno al collo.
“Mollo tutto e parto” si era detta spesso Maria, tra sé e sé.
Ammirava le storie di personaggi che da un giorno all’altro avevano mollato tutto ed erano partiti. Come i suoi nonni, che un tempo, mischiati con la miseria, erano davvero partiti ed avevano davvero mollato tutto.
Ogni notte, prima di addormentarsi, Maria si diceva che il giorno dopo avrebbe fatto lo stesso, e nel mentre se ne stava come sull’orlo di un burrone ad attendere un “Vai.” Ma ogni mattina, esattamente alle 7:30, Maria si svegliava e, avendo perso tutto, anche l’ultimo pezzo di coraggio, saliva sulla sua nave da guerra.
Si era detta che anche la guerra era bella, nella guerra si moriva una volta solamente.
La sveglia delle 7:30 riecheggiava nel suo appartamento vuoto. Anche lui aveva perso tutto, o meglio, tutti. Il cane non abbaiava più e non le veniva più incontro per il biscotto. Non c’era nessuno a darle più il bacio del buongiorno. E adesso che le era rimasto? Mezza mela sul tavolo, le foto tolte dalle pareti, un armadio vuoto.
Scese per strada quella mattina, tra la gente infilata nei cappotti e un vociare fastidioso, prese il tram. Si vide riflessa nel vetro, tra i passeggeri assonnati, con i capelli arruffati in una coda sprecisa, il rossetto color pesca, la camicia da ufficio, una giacca beige, una calma apparente, una persona come un’altra che non si riconosceva più e che urlava da dentro “fatemi uscire.”
Lo vide lì per la prima volta. Una tuta sdrucita, in una mano un libro, nell’altra dei fiori, un mazzo di peonie. Sotto i baffi ondeggiava un sorriso genuino.
“I miei fiori preferiti” pensò Maria.
Da quel giorno lo vide tutte la mettine sul tram delle 8:30, tranne il martedì, sempre seduto nelle file in fondo. Si infilò senza permesso nella sua quotidianità, sempre la stessa tuta sdrucita e il solito sorriso. Il libro cambiava di tanto in tanto, i fiori mai.
Successe di lunedì, quando Maria aveva addosso l’odore delle macerie.
Lui riconobbe quell’odore, assomigliava al suo.
Tra la folla dell’autobus si mosse delicatamente e con precisione nonostante gli anni che aveva sopra e le mani occupate.“Mi scusi, questo posto è libero?”
Maria fu costretta a scendere dal buco nero.
“Sì, certo” in un primo momento non lo riconobbe. Portava una giacca elegente, forse il lunedì non era per tutti il giorno delle macerie.
Le rivolse un sorriso e in quel momento Maria si ricordò che le piacevano i sorrisi. In passato li aveva avuti anche lei, li aveva regalati e li aveva ricevuti. Per un sorriso era morta e rinata, per un sorriso era stata capace di sognare per anni, si era sentita una piuma; per un sorriso aveva raccattato pezzi di felicità assoluta.
In quel lunedì ebbe il coraggio di ricambiare e si sorprese nel notare che il cielo si era alzato un pochino.
L’uomo aveva gli occhi verde acqua marina, lo stesso colore degli occhi di sua nonna.
Ricordò il giorno in cui sua nonna, chiudendoli per l’ultima volta, glieli aveva sottratti. Si sentì stritolare lo stomaco come se qualcuno glielo stringesse in un pugno. Quanto le mancava sua nonna e la sensazione di assomigliare a qualcuno.
“Sa, oggi mi viene a trovare mio figlio” esordì all’improvviso l’uomo.
Maria rimase zitta.
“È tanto che non ci vediamo” l’uomo riprovò.
Maria non ebbe molta scelta, e, anche solo per educazione rispose.
“Lavora fuori?”
L’uomo si illuminò. I suoi occhi liquidi divennero guizzanti.
“Sì, a Milano, fa il professore.”
Ci fu un attimo di silenzio, Maria sperò che il vecchio si stancasse di avere un interlocutore pigro e disinteressato. Il vecchio incespicò per timore di esser preso per petulante e fastidioso. E invece…
“Sa, noi vecchietti ad una cert’ora diventiamo una faccenda da sbrigare tra le tante altre.” Disse avvicinando il viso a quello di Maria, neanche le avesse confessato un segreto spiazzante.
Maria sorrise. Sua nonna un giorno le aveva detto la stessa cosa. La ricordò mentre tentava di mantenere la sua solita leggerezza, ma a Maria non era sfuggita la patina di insicurezza tipica di chi si sente fragile.
“E i fiori per chi sono?” rovesciò quelle parole d’improvviso. Si sorprese poi però nel sapersi ancora al mondo, capace di incuriosirsi.
“Le piacciono? Sono per mia moglie, lei non c’è più.” Il vecchio abbassò lo sguardo, per un attimo rapito chissà da quale ricordo.
“Oh mi dispiace, io non volevo…”
“Ma no, si figuri. Era vecchietta, mia moglie, è il corso naturale delle cose.”
Lo disse con una dolcezza che ricordò a Maria le balene in mare che si strofinano l’una all’atra, l’acqua dei torrenti che accarezza le rocce, un bacio eschimese, un padre con le mani callose che toglie i capelli dalla fronte del suo bimbo. D’improvviso e per un istate, il vecchio aveva rimesso tutto al suo posto.
“Le peonie sono i miei fiori preferiti” sciolse il nodo in gola e si trovò a parlare con naturalezza.
Il vecchio continuò a sorridere, la fissò con gli occhi acqua marina il tempo necessario per fidarsi di lei, sfilò dal nastro la metà dei fiori – esattamente la metà –, e glieli porse.
Maria non sapeva come sentirsi, né cosa dire. Da troppo tempo non riceveva un gesto del genere. Più morta che viva, si era veduta bene dal nascondersi dagli altri, si sentì tremare, ma non era vergogna, non era timidezza, non era nemmeno gioia o stupore: era una bufera di tristezza così violenta da ricordarle il fracasso delle imposte di una casa che sbattono al passare di un uragano.
“Tenga, mia moglie Maria aveva un debole per le ragazze tristi.”
Arrivò la fermata 27 di Viale Marconi e il vecchio si alzò per scendere dal tram, lasciando Maria con i fiori sulle ginocchia. Lo seguì con lo sguardo fino a che il pullman svoltò e lui sparì dietro un angolo della città. Talmente abituata a perder cose, Maria si sentì come se avesse perso anche il vecchio. Lo avrebbe ritrovato il giorno dopo? Le venne la voglia di scendere per rincorrerlo, ma era un’idea così sciocca.
Pensò che del vecchio non sapeva nulla o forse sapeva quello che c’era da sapere, che quel lunedì indossava probabilmente la sua giacca migliore per mandare un messaggio al figlio (“sto bene, non preoccuparti”); sapeva che i fiori che portava sempre con sé erano per sua moglie che non c’era più, che Maria e sua moglie, oltre al nome, condividevano la passione per le peonie, Maria ne aveva anche una tatuata addosso, il simbolo di un’amicizia passata e oramai persa.
Del vecchio, inoltre, sapeva anche che aveva due occhi color verde acqua marina, gli stessi di sua nonna, ma il colore non era l’unico elemento che l’aveva colpita: dietro quel colore simile al mare c’era una scintilla gialla, luminosa, un guizzo vivace che ricordava lo sguardo dei bimbi al parco giochi in una giornata di sole dopo tanti giorni di pioggia, il guizzo che esisteva un tempo negli occhi di sua nonna e saltava fuori ogni volta che Maria l’andava a trovare, negli ultimi giorni soprattutto, quando, ormai sdraiata a letto, aspettava calma.
Fu proprio il vecchio e il suo amore autentico, mantenuto vivo in quel tram e nei fiori sulle ginocchia, che le fece pensare a quella sera, la sera in cui conobbe Giulio. Era molto che non ci pensava, stava bene attenta a non farlo, conosceva bene il dolore che portano certi ricordi, soprattutto i ricordi delle cose perdute. Fu come un pugno nello stomaco, fu peggio della notte che aveva passato. Sentì la spina dorsale che reggeva il suo corpo troncarsi, come se qualcuno la strattonasse strappandola al presente. Si sentì come punita per aver scacciato di forza quei ricordi, che a discapito della sua memoria difettosa erano vividi come per dispetto. Si sentì rabbiosa, una rabbia che le veniva fuori dallo stomaco e saliva in gola. Non poteva far altro che accettare il momento, adesso. Appoggiò la testa al finestrino ed aspettò, una lacrima era già pronta dietro i suoi occhi.
Era settembre di tre anni prima, precisamente il 16 settembre. Si rivide allo specchio, aveva mosso i capelli, cadevano morbidi e liberi sulle spalle, aveva ancora l’abbronzatura addosso, la sua pelle ebano cosparsa del suo profumo preferito, una gonna a fiori a campana scopriva le gambe e seguiva morbida ogni suo movimento ed un top bianco le scopriva la pancia. Avevano ottenuto il risultato che cercava, vedeva allo specchio una Maria vivace, sbarazzina, che aveva da dire al mondo “sono pronta”. Era agitata, quell’agitazione che ti fa sentire il cuore in gola, che non ti fa sentire la fame. Si rese conto che non aveva cenato, ma poco importava. Era trepidante, agitata. Lo vedeva per la prima volta, sentiva i suoi occhi addosso, poi l’imbarazzo tipico di due persone che si piacciono ma che sono sconosciute, che si vogliono, ma che non sanno da dove partire, che si studiano, si annusano, si immaginano.
Arrivò leggermente in ritardo all’appuntamento, le avevano insegnato che è sempre meglio farsi aspettare. Lui ci mise qualche secondo prima di riconoscerla e in quei secondi Maria provò a respirare e a cercare di tener ferme le mani terremotate. Si avvicinò a lui sperando di non inciampare, non sapeva che dire, sorrise e basta, fu lui a metterla a suo agio. “Signorina, è un po’ in ritardo.” Maria si sentì le pupille trasformarsi in cuori. “Calma” disse tra sé e sé.
Due chiacchiere e si sentì a casa, gli sembrava di conoscerlo da sempre. Poche domande, come piaceva a lei, tanti sguardi, il suo modo di scherzare, la sua leggerezza erano riuscite ad abbattere quei muri, uno dopo l’altro. Le piaceva quel ragazzo, dio se le piaceva, eppure non lo conosceva, ma il suo odore gli diceva tutto quello che serviva. Era tanto, così tanto che non le piaceva qualcuno che le sembrò che stesse passando la serata più bella della sua vita.
“Ci assomigliamo” gli disse lui d’improvviso.
Lei rise “tu sei assai più alto.”
“E tu sei molto più bella.”
Erano al terzo gin tonic e Maria era completamente ubriaca. Si sentiva leggera come il mare aperto, si immaginava nelle sue braccia a creare una forma perfetta. Intorno scompariva tutto, le voci degli avventori del locale, le ombre dei passanti, le macchine, la barista che stava sparecchiando il terzo bicchiere. Il cuore le batteva talmente forte che se lo trovò fuori dallo sterno, si imbarazzo all’idea che lui potesse vederlo, si chiese se anche a lui battesse così forte.
“Ti va di andare in un posto?” propose lui.
“Che posto?”
“Il mio posto preferito.”
Già sul muretto, tra la selva e il mare, si avvertiva l’odore di salsedine che passava attraverso le fronde dei pini e dei lecci, si sentiva il vento caldo suonare dalla pineta, il Libeccio (era stato suo nonno a insegnarle a riconoscerlo. Nelle notti d’estate in banchina, davanti ai pescherecci, le faceva chiudere gli occhi e ascoltare il mare e il vento: “non ti fidare mai del Libeccio, è sempre caldo, d’estate spira come brezza, mentre a fine estate e durante l’inverno può diventare molto violento. C’ho litigato tante volte”).
La notte era nera su quel muretto, nessun lampione, nessuna macchina, nessun locale, Viareggio a settembre veniva abbandonata dai turisti e la si poteva assaggiare quasi selvaggia, là dove si stagliano le dune, colonizzate prima dai ginepri coccoloni e poi via via da piante sempre più basse e rade, fino ad arrivare alla spiaggia morbida e nuda. Lo guardò per un attimo e intravide la luna dietro le sue pupille.
“Ho sempre sognato di andare sulla luna” gli confessò.
“Forse questo è un po’ troppo romantico, non trovi?”
Maria si blocco. “La scienza ti pare una cosa troppo romantica?”
Lui la prese al volo in braccio per evitarle di scavalcare un tronco che si era steso, là dove i loro passi si facevano strada verso le stelle. Non si aspettava quel gesto, si trovò ubriaca di gin tonic e impaccio, fu costretta a sfiorare il suo petto che le ricordò quello di suo padre quando da bambina le faceva fare i tutti in mare, se chiudeva gli occhi poteva ancora vedere come brillavano al sole le gocce di mare sulla sua palle, le venne voglia di chiederglielo.t
“Facciamo un tuffo in mare?”
“Ma l’acqua è fredda“ disse sorpreso.
“Se ti ammali vengo a curarti.”
“Beh, a queste condizioni non posso tirarmi indietro.”
Si tolsero i vestiti senza smettere di guardarsi negli occhi. Maria notò un fisico massiccio che la fece sentire piccola, lei costretta a sembrare sempre così forte. Si mise in punta di piedi e lo baciò. Sapevano che l’eros li avrebbe mangiati vivi se l’avessero lasciato fare, ma in quel primo bacio c’era già l’amore, entrambi lo sapevano. La luna era vicina a loro, loro erano vicini al mare e lo scuro della notte li ingoiava. “L’amore è così semplice quando arriva”, pensò Maria. Il rumore delle loro lingue e delle onde che si infrangevano sulla riva li cancellarono dalla realtà.
Maria si tolse la camicetta e cominciò a correre per buttarsi in mare, la testa sotto l’acqua sorprendentemente calda, l’orizzonte che si mischiava al mare nero, il cielo nero addosso con le sue stelle brillanti, le mani di lui che le toglievano i capelli bagnati dal collo. Si abbracciarono, lei mise i suoi piedi tra le sue gambe e si appoggiò alla sua spalla. L’amore quando arriva spazza via la vita.
L’alba spuntò da dietro i ciuffi di Camuciolo, il miele di spiaggia, riempiendo l’aria di un profumo selvatico e colorando le dune della spiaggia che va da Viareggio alla foce del Serchio. Si videro chiaramente dopo ore di buio, si trovarono più belli di prima, Maria indossava la sua camicia celeste che la copriva fino alle ginocchia, lui fumava a petto nudo. Non c’era nessun’altro posto in cui volessero essere, non avevano un posto dove andare, perché un posto, fuori dal quella spiaggia, non c’era più.
Il giorno dopo era martedì. Maria si svegliò come previsto alla solita ora, 7:30. Attraversò la sua stanza schivando gli oggetti sul pavimento, scarpe, vestiti, posaceneri, libri. Il disordine aveva avuto la meglio nel suo appartamento come nella sua vita. Quel giorno decise di indossare quel cappotto rosso che le era sempre sembrato così vistoso ed eccessivo. Glielo avevano regalato le amiche per un compleanno, nonostante sapessero che lei odiava mettersi in mostra e soprattutto odiava il rosso, nonostante fosse di segno toro, ma quella mattina le sembrò giusto essere colorata, c’era qualcosa nel ricordo di Giulio che non l’aveva distrutta, qualcosa che quella notte non l’aveva ingoiata nel solito buco nero. Non era successo nulla di diverso dagli ultimi mesi, forse il dolore aveva perso la sua forza, o forse la sua anima da qualche parte aveva ricominciato a ruggire, di quel ruggito misero, che fa più tenerezza che paura, quel ruggito di cucciolo di leone, che tira fuori quando capisce che si deve far strada in un mondo spietato che non conosce.
Sapeva che non avrebbe incontrato il vecchio quella mattina, se ne dispiacque, ma si rincuorò sapendo che il giorno dopo l’avrebbe rivisto e avrebbe indossato di nuovo quel cappotto per lui.
Ma anche di mercoledì il vecchio non si presentò. Salita sul tram, tra i complimenti inaspettati del conduttore e le spinte involontarie dei passeggeri, Maria lo cercò con la testa alta che faceva capolino in mezzo ad altre teste, ma niente, del vecchio nemmeno l’ombra. Si sentì agitata, che cosa gli era successo? Non sapeva nemmeno dove avrebbe potuto cercarlo. Adesso era un nome che serviva, un indirizzo, un recapito telefonico, ma non aveva nemmeno quello. Magari aveva solo cambiato tram, sarebbe potuta finire lì, senza che lei sapesse come e perché, senza sapere più nulla di lui, come se non fosse mai esistito, come non esistono i sogni e i fantasmi, le coincidenze e il sesto senso, non avrebbe mai visto il suo cappotto rosso, non avrebbe mai sentito quella vibrazione, quel ruggito nel suo animo appena nato.
Il vecchio ricomparve il venerdì, quando ormai Maria aveva deciso di smetterla di pensarlo. Lo trovò seduto nel posto dove spesso sedeva Maria, solita tuta sdrucita, soliti fiori, due libri.
Maria ne fu felice, non nascose il suo entusiasmo e si affrettò a sedersi accanto a lui. Lo trovò sorridente come al solito ma con l’aria più trasandata, la barba giallastra cresciuta ai bordi del viso.
“Buongiorno.”
“Buongiorno a lei, non l’ho vista in questi giorni, tutto bene?”
“Oh, solo un po’ d’influenza.” Gli occhi verde acqua marina dell’ultima volta portavano stanchezza, erano segnati da occhiaie violacee. “Ma adesso è passata” la rassicurò.
“Devo ammetterle che mi ha fatto preoccupare, volevo chiedere di lei, ma non so come si chiama…”
“Che maleducato, non mi sono nemmeno presentato. Sono Alberto, ma mi chiamano tutti Berto, anche lei può chiamarmi così.”
“Io sono Maria.”
Ci fu un attimo di silenzio, gli occhi del vecchio si illuminarono, Maria ritrovò quella scintilla gialla.
“Che bel nome che porta. Posso darle del tu, Maria? Non sono abituato a dare del lei alle Marie.”
Risero.
“Certo, mi farebbe piacere.”
“Ah,” disse il vecchio, “puoi tenermi un attimo i fiori?”
Maria li prese studiandolo curiosa, come se si aspettasse di veder uscire delle colombe dal suo cappello.
“Ecco, l’ho portato per lei, voglio dire, per te.”
Le allungò un libro color rosa. Il titolo era: Cambiare l’acqua ai fiori.
“L’ho letto in questi giorni di malattia, ho pensato a te, secondo me ti piacerebbe molto, non so se ti piace leggere ma vorrei regalartelo.”
“Mi piace molto leggere. Non so che dire, Berto, non dovevi, mi dispiace privartene.”
“Anche io ho un debole per le ragazze tristi.”
Strizzò l’occhio destro e Maria sentì un calore provenire dalle spalle, un calore che le ricordava i pranzi a casa di nonna.
Il giorno dopo si incontrarono ancora. Maria indossava il cappotto rosso e lui se ne accorse subito e non perse l’occasione di dirle che le stava bene. “Che piacere vederti con qualcosa di così colorato, è un buon segno.” Maria non aveva raccontato niente a Berto della sua storia, ma lui sembrava aver capito tutto.
“Perché il martedì salta la sua corsa?” Maria non resistette alla curiosità.
“Io e mia moglie ci siamo conosciuti di martedì, quel giorno i fiori glieli porto a casa nostra.”
Finì il libro in pochi giorni, divorandolo, le sembrò incredibile che Berto le avesse regalato quel libro, tra tanti proprio quello. Era lunedì sera quando alle 3:00 di notte chiuse l’ultima pagina e capì che aveva bisogno di ritornare a vivere a qualunque costo. Non poteva aspettare un attimo di più, era una donna forte, dentro di lei lo sapeva, qualcuno o qualcosa glielo aveva ricordato.
Successe tutto così di fretta che ebbe l’impressione di essere su una giostra.
Si alzò di fretta buttando per terra le coperte, si mise a sistemare, mise la biancheria sparsa per la stanza dentro la lavatrice, prese un sacco e buttò via tutte quelle medicine per la testa che prendeva da mesi, buttò le sigarette, buttò le foto di Giulio (tutte tranne una, perché un monito serve sempre), mise la musica nelle orecchie e sistemò i libri per colore, si muoveva con Lucio Dalla, tolse un libro da sotto il peso del gatto, poi andò in cucina, buttò i cibi spazzatura e si fece una doccia sotto l’acqua bollente con la voce di De André. Adesso aveva voglia di uscire nonostante l’ora, aveva voglia di non perdersi più un attimo di mondo, voleva tornare sul mare tra i ciuffi di Camuciolo al vento e al Libeccio.
Si mise il giaccone e una coperta sulle spalle, l’aria delle tre di notte era tagliante come un coltello affilato, le pareva che il naso e le mani le potessero cadere da un momento all’altro. Maria fermò la macchina sul muraglione della darsena di Viareggio e l’umidità del mare la pietrificò, ma non le importava, non voleva perdersi neppure il freddo. Camminò sulla banchina e cominciò a intravedere i primi pescherecci, li contò, posto numero sei la “Maria” comprata da suo nonno l’anno dopo la sua nascita era ancora lì che tremolava al passare delle onde lunghe; non l’avevano messa più a lucido, brillava ancora di vecchio. Si sedette su una panchina proprio lì davanti, chiuse gli occhi e si lasciò frustare dal vento di mare, un Libeccio randagio. “Ti riconosco” pensò mentre tremava. I polmoni le si riempirono dell’odore del sale e delle alghe, di gasolio e pesce morto.
Chiuse gli occhi ed oltre il nero delle sue pupille sentì anche l’odore delle reti cotte dal sole, cercò il respiro di suo nonno e lo trovò, vide le sue mani piene di calli che tiravano su le reti, la faccia arrostita dal sole, lui sfiancato dal mare, lui che il mare era tutto, casa sua, i suoi pensieri sabbiosi. Sentì anche sua nonna ridere, la sua risata pura che sbatteva sulle pareti della barca, sulle dune al di là del porto, sulle mura della torre del faro e il suo cuore finalmente rise, rise con lei, ricordò quanto il mare di luglio le assomigliasse, verde acqua marina.
I loro pranzi a bordo la domenica, il tavolo mezzo sul peschereccio e mezzo sulla banchina, l’abbondanza di cibo e di gioia, momenti che non assomigliavano a niente. Si ricordò bambina con la bocca sporca di briciole, suo fratello che aiutava suo nonno a togliere il pesce di raschiatura dalle reti, mamma e papà felici per l’ultima volta, i cigolii delle cime d’ormeggio a prua, un tuono che echeggia sopravento, le mani di nonno che l’aiutavano a salire dopo un tuffo, i tuffi con papà e le gocce di mare sul suo petto, la gonna a fiori di mamma che danzava.
Ora non c’era più nessuno. I suoi nonni, Giulio, i genitori, suo fratello. Nessuna festa, nessuna risata, le reti vendute insieme al peschereccio. Era rimasto il silenzio e i cigolii delle cime, era rimasto il mare nero, il Libeccio randagio, ma era tornata la memoria e ora Maria sapeva che tutto ciò che aveva perso era lì, tutto suo, per sempre.
Maria lasciò la sua anima al vento.
Rinata in quella notte, il lunedì cercò il vecchio per raccontarle del libro, della notte passata in banchina, dei ricordi che non l’avevano uccisa ma che le aveva ridato la vita, della casa ripulita, della sua anima lasciata al mare, della foto tenuta e delle sigarette buttate.
Maria cercò il vecchio, non lo vide di martedì e non lo vide mai più.