La ragazza della polaroid

Carmine Carbone

Una volta conosciuto il buio più profondo,
ogni spiraglio di luce riuscirà ad illuminarti e riscaldarti.

Primo giorno d’autunno 1991

La lampada sulla scrivania emana un bagliore bianco gelido. Attraverso la fessura delle palpebre, Massimo riesce a vedere a stento la giacca della divisa dell’ufficiale seduto di fronte. Le medaglie colorate sul petto, la spilla a forma di paracadute, i bottoni che riflettono spilli di luce sul volto.
«Lasciaci soli».
L’ufficiale si rivolge al carabiniere che lo ha accompagnato all’ufficio e che lascia la stanza chiudendo la porta.
L’uomo in divisa tende un braccio verso di lui. «Quindi?», domanda distratto.
Massimo infila la mano fredda e bagnata nella tasca dell’impermeabile verde e tira fuori una foto. È una polaroid conservata in una custodia di plastica.
Allunga lo sguardo sulla targa poggiata al lato della lampada e legge il grado del suo interlocutore, tralasciando nome e cognome.
«Maggiore, deve aiutarmi. Sto cercando la mia bambina.»
Il maggiore prende la foto e dà uno sguardo veloce.
«È la ragazza bionda al centro» specifica Massimo, «la prego, non faccia caso alla qualità della foto».
L’immagine è buia e leggermente in movimento. La ragazza sulla foto ha un gran sorriso da adolescente serena e occhi che brillano, puntati su un enorme cono gelato. Si trova al centro tra due ragazzi, i cui volti sono stati cancellati, grattati via.
«Ho trovato la foto nella cassetta della posta. Dal primo pomeriggio di ieri, non è ancora rientrata a casa. Mi deve aiutare».
Il militare si alza dalla sedia e si gira verso la grossa finestra. «No, non stasera, ti prego».
Dalla finestra si vede chiaramente il temporale scagliarsi sui tetti delle case. Il bagliore dei lampi accende le pozzanghere nella piazza. I fari delle auto in lontananza emanano luci irregolari e frastagliate. «Quando finirà questo acquazzone? È da ieri che non ci dà tregua».

24 ore prima

Massimo chiude lo studio fotografico in tutta fretta e accelera i passi per tornare a casa quanto prima. Mancano ancora quaranta minuti all’ora di chiusura, ma grossi nuvoloni neri iniziano a radunarsi sulla sua testa.
Percorre il viale alberato senza soffermarsi sulle tante vetrine ancora illuminate. Farà a meno anche del pane, risparmiandosi i lunghi e noiosi monologhi del panettiere, così arriverà a casa senza bagnarsi.
In quel preciso istante un lampo rischiara tutt’intorno. È come un flash alle spalle che proietta la sua ombra per una decina di metri. Il rumore del tuono lo sorprende. È il panico.
Non vuole essere lì. Non vuole bagnarsi. Non vuole che il temporale lo avvolga.
In tutta fretta prende l’impermeabile dallo zainetto in pelle che ha in spalla, lo indossa e alza il cappuccio. Il passo è rapido ma non abbastanza. Non riesce a correre. È affannato e sente il cuore in gola. Ancora un rettilineo, poi a destra. Dopo l’incrocio finalmente sarà al portone del suo condominio. Ma è tardi. Ecco la pioggia. Vede le prime gocce cadere e inizia a guardarsi intorno. La gente sembra svanita nel nulla. È solo in quel temporale e non voleva che accadesse.
Finalmente il palazzo. Entra sperando di riprendersi e di riuscire a respirare regolarmente. La testa gli sembra scoppiare mentre cammina claudicante. Spera che le gambe riescano a sorreggerlo, poi ancora un tuono, un boato così forte che lo fa crollare in ginocchio nell’atrio condominiale. Gli occhi gli bruciano tanto da chiuderli, le mani sulla fronte a sorreggere la testa. Uno, due, forse tre minuti e poi la mano che si aggrappa alla parete e lo solleva. La guancia si appoggia alle cassette della posta. Dà uno sguardo alla sua – Interno 7 – «Cosa c’è dentro?» Vede qualcosa. No, è vuota. Forse è vuota. Non riesce a capire.

Massimo spalanca gli occhi nel buio del salotto. L’orologio segna le ore 23:47. Non ricorda l’ascensore, non ricorda la porta di casa e le mandate “segrete” per riuscire ad aprirla, non ricorda come sia finito sul divano senza vestiti e con una bottiglia di vodka, ormai vuota, sotto la schiena. Nel prenderla solleva qualcos’altro. «Ma che diavolo! Questa polaroid da dove salta fuori?»
La polaroid spunta tra un volantino e una bolletta della luce.
«La cassetta della posta! Ma chi l’ha messa lì dentro?»
Si alza rapidamente dal divano e si dirige verso la cameretta. Il letto è vuoto e le lenzuola rosse di raso sono in ordine.
Va in bagno e trova una bottiglia di whisky svuotata nel lavandino. Apre il rubinetto, fa scorrere l’acqua calda e, in quell’istante, l’odore di alcol sembra risalire dai tubi di scarico. Un senso di nausea gli inonda naso e bocca.
Cammina barcollando verso la cucina, ha bisogno di un caffè. Se entro trenta minuti lei non rientra, dovrà uscire a cercarla.
Ammazza il tempo facendo una lunga doccia bollente, che però non lo aiuta. Ha ancora la testa pesantissima e le vertigini. Raggiunge il letto e si stende, il telefono è sul comodino, afferra la cornetta e riprende la foto. La osserva mentre compone il numero telefonico.
Squilla. Nessuno risponde. Lascia squillare.
«Pronto» l’interlocutore risponde assonnato.
«Sebastiano! Sono io. Non è rientrata a casa».
«Massimo, che diamine, sono quasi le due di notte! Non è rientrata? Calmati e torna a dormire. Ne riparliamo domani» La telefonata si interrompe. Massimo prova a richiamare, ma la linea è staccata.
Arriva alla finestra non riuscendo nemmeno a tenere gli occhi aperti, lungo la strada non riesce a scorgere nessuno. Attende qualche minuto nella speranza di vederla arrivare, di vederla entrare dalla porta e sorridere mentre tenta di convincerlo con qualche buffa scusa riguardo al suo ritardo. Nulla. Ad arrivare inaspettato, però, è un tuono che rimbomba lungo il corridoio e fa eco nelle stanze deserte. Il vetro della finestra scricchiola come la sua fronte. Porta le mani al viso e si ripara sotto la coperta. Ha freddo. Ha tanto freddo.

Estate 1972

Il sole di un intenso color arancio che tocca il mare. Una palla di fuoco che sembra sciogliersi nell’acqua. Un rituale che Massimo e Sebastiano osservano dalla riva, ogni pomeriggio d’estate.
Poi gli ultimi tuffi della giornata nelle acque tiepide e accoglienti prima di recuperare i loro teli e salire in sella al motorino per rientrare in villa prima di cena.
Il motorino è sempre lì, appena dietro la fila di cactus che protegge la spiaggetta solitaria e selvaggia.
«Dai Massimo, andiamo che facciamo tardi» Sebastiano è il classico sedicenne con la testa sulle spalle che richiama il fratello maggiore un po’ ribelle, ma lo fa in un modo intelligente, facendolo sembrare un consiglio a fin di bene. «Dai, sbrigati! Papà non sarà contento se facciamo tardi al barbecue».
È già sul motorino acceso quando Massimo intravede un pescatore scendere da una piccola barca e risalire verso la riva.
«Cosa hai preso?» gli si avvicina curioso.
«Qualche cefalo, ricci e due polpi» risponde l’uomo.
«E quella conchiglia cos’è? È enorme» chiede Massimo, allungando lo sguardo all’interno di una vecchia rete gialla.
«È una Turritella. Un mollusco con la conchiglia a forma conica» spiega il pescatore. «Ecco, guarda, ce ne sono tre. Ti piacciono? Prendile».
«Ma si muovono» esclama Massimo con la mano aperta mentre i molluschi si agitano.
Il vecchio pescatore ne prende uno e dopo l’altro e li risucchia «Buonissimi. Sanno di mare», e poi gli consegna le conchiglie vuote.
Massimo, alquanto perplesso, lo ringrazia e si allontana raggiungendo Sebastiano. «E anche stasera faremo tardi per colpa tua».
Il motorino arranca sulla salita con i due in sella, a destra la fitta pineta e a sinistra gli alberi di ulivi che si alternano ai cancelli d’ingresso delle enormi ville affacciate sul Mediterraneo. Giungono a “Villa Gemini”, la targa di fianco il passaggio pedonale è ben visibile tra le foglie verdi di una pianta rampicante.
È la dimora estiva della loro famiglia da oltre trent’anni, da quando il nonno, rinomato orafo, l’aveva acquistata.
Massimo entra in casa e sente il brusio delle persone già a tavola. L’intenso odore della brace gli fa capire che il padre è già davanti al barbecue, con grembiule e coltelli alla mano. «Finalmente», la madre li accoglie con un sorriso.

La tavola è impeccabile: tovaglia bianca, tovaglioli color limone, calici lucenti e posate d’argento. Massimo e Sebastiano prendono posto di fianco alla loro sorella. Ginevra ha diciassette anni, due in meno di Massimo e uno in più di Sebastiano. Ha l’aria disinteressata di chi vorrebbe essere in qualsiasi altro posto tranne che lì.
«Cos’hai che non va? Anche stasera non si esce?» il tono sarcastico di Massimo è fastidioso e pungente.
«Lasciala stare» risponde Sebastiano.
Ginevra sbuffa, mentre il padre si avvicina e le consegna un piatto con due costine e una salsiccia. «Io non mangio tutta questa roba». Non fa in tempo a dirlo che i fratelli si avventano sul suo piatto.
«Arriva anche a voi» esclama la madre, raggiungendo il tavolo con un vassoio di bevande.
Quando il fuoco della brace è esausto e i piatti vuoti, i ragazzi si alzano e si accomodano sul grande divano in giardino.
«Ginevra, che succede? Ti hanno beccata di nuovo?» chiede Sebastiano.
Lei annuisce in modo sconsolato.
«Certo che anche se più grande, questo ragazzo è poco furbo. Sorpreso tre volte di seguito è un record» la punzecchia Massimo.
«Poi con quella moto così rumorosa. Si sente arrivare lontano un miglio».
«Ma cosa dovrei fare? Come voi sfigati. Starmene al mare tutto il giorno e mangiare e bere fino a notte fonda?» sbotta lei.
«Tu la sera non esci più. Non voglio che sali sulla moto di quel ragazzo. Te lo dico per l’ultima volta!» la voce del padre è brusca mentre lascia fuori due sacchi della spazzatura.
«Tranquilla, una di queste sere ti aiuto io a sgattaiolare fuori» ammicca sorridente Massimo.
«Non credo sia una buona idea», le parole di Sebastiano sembrano la voce della coscienza. Suo fratello e sua sorella a vederlo scoppiano in una grossa risata che si perde tra gli alberi del giardino al chiaro di luna.

La pioggia si è fermata ma fitte nuvole grigie e un’intensa foschia coprono la città rendendola incolore. Il risveglio di Massimo è brusco. Le campane della chiesa risuonano insieme alla sirena di un veicolo di soccorso quasi a creare una improbabile e tetra melodia.
L’appartamento è uguale a come lo aveva lasciato prima di rifugiarsi a letto, segno che è ancora solo.
Indossa velocemente jeans e maglioncino blu, recupera portafogli e fotografia dal pavimento mentre si allaccia le scarpe. Un’occhiata allo specchio non gli basta per capire quanto sia sconvolto in viso. Gli occhi arrossati si abbinano perfettamente alle occhiaie scure e profonde e i capelli brizzolati in scompiglio.
Scende in strada, un profondo respiro che sa ancora di vodka e poi si guarda intorno con la polaroid tra le mani. «Dove sei?» sussurra con voce tremante incamminandosi a passo svelto lungo il viale alberato.
«Buona domenica!» la signora in bicicletta lo saluta senza nemmeno che se ne renda conto. Tira dritto verso il panificio, l’unica attività aperta.
«Salve Gigi» una volta dentro, supera i due clienti in attesa e raggiunge il banco.
«Buongiorno Massimo. Che ci fai qui a quest’ora del mattino?». La voce squillante del panettiere conferma che lui, invece, è sveglio e in piena attività già da un bel po’.
«Scusami, l’hai vista passare?» chiede Massimo mostrandogli la foto.
Gigi resta interdetto, ma lui incalza. «L’hai vista? Non è rientrata a casa stanotte».
«Massimo, calmati. Chiamo tuo fratello? Lo chiamiamo insieme?» mentre Gigi tenta di tranquillizzarlo, lui sbotta e fa due passi indietro. «L’ho già chiamato e ha il telefono staccato.»
Prima di uscire dal negozio, Massimo mostra la foto e pone la stessa domanda ai due clienti che fanno un cenno negativo con la testa.
Si incammina proseguendo senza meta sperando di incrociarla, ma il quartiere è deserto.

Quella sera Massimo ha un piano perfetto: far credere ai genitori di uscire con Ginevra, da buon fratello maggiore, e poi lasciarla libera di vedere quel ragazzo più grande.
Non lo fa perché gli piace quel tipo, ma perché ama sua sorella e non vuol lasciarla marcire di delusione e rabbia a casa l’ultima sera d’estate. Le avrebbe permesso di godersi quegli ultimi momenti prima del rientro in città, alla vita quotidiana. Sebastiano non approva ma reggerà il gioco, pur standosene a casa a contemplare la grossa fontana in giardino.
«Ma ti vedranno rientrare da solo. Cosa dirai?» chiede la sorella.
«Non rientrerò a casa. Sarò in giro e ti aspetterò».
«Il cielo non promette nulla di buono questa sera», borbotta Sebastiano.
«Il solito sfigato» esclama Massimo. «Facci divertire questi ultimi momenti di vacanza! Poi torneremo alla tua noiosissima vita, tutta scuola e disciplina».
Chiuso il portone alle loro spalle, Massimo e Ginevra si incamminano verso il viale che conduce alla strada. Lei si aggrappa al suo braccio, raggiante, e lo guarda intensamente. «Grazie fratellone!».
«Mi raccomando, non combinare guai!»
«Promesso».
«Ma questo vestito?» Massimo con un sorriso malizioso inizia a stuzzicare la sorella.
«È lo stesso dell’altra sera, quando tu e Sebastiano mi avete portato in paese a mangiare il gelato. E non lo avevi nemmeno notato» si difende Ginevra. «Come non hai notato che indosso la tua conchiglia al collo». Mostra una delle collane che Massimo aveva confezionato, per lei e per Sebastiano, con le conchiglie recuperate in spiaggia.
«La porto anch’io stasera». Massimo gliela sta mostrando proprio mentre in lontananza si inizia a sentire il rombo della moto.
«Dobbiamo avvicinarci noi al piazzale, non può arrivare fin qui. Papà lo sentirebbe» esclama Ginevra. «Guarda che belli questi fiori rossi. I petali sono talmente lucenti che sembrano di raso», dice indicando una siepe fiorita ai margini della strada.

Massimo arriva davanti all’imponente ingresso della caserma e dà tre colpi di batacchio. Qualche istante e il portone si apre lentamente, il carabiniere gli fa un cenno svogliato di saluto e dopo averlo guardato, in modo abbastanza perplesso, lo fa accomodare in sala d’attesa. Massimo lo osserva dal vetro che li separa. Ha circa vent’anni e un pizzetto da quarantenne. Lo vede quasi imprecare mentre prende la cornetta del telefono e compone un breve numero. La telefonata dura pochi secondi e il carabiniere lo raggiunge rapidamente e lo invita a seguirlo.
Massimo ha quasi paura di sporcare con le sue scarpe fradicie il tappeto rosso del corridoio. Busti di marmo si alternano alle porte dei vari uffici fino a che il giovane gli fa un cenno di fermarsi e attendere. Scompare per qualche secondo dietro un’enorme porta in legno prima di invitarlo a entrare e farlo accomodare su una poltrona.
La lampada sulla scrivania emana un bagliore bianco gelido. Attraverso la fessura delle palpebre, Massimo riesce a vedere a stento la giacca della divisa dell’ufficiale seduto di fronte.
Le medaglie colorate sul petto, la spilla a forma di paracadute, i bottoni che riflettono spilli di luce sul suo volto.
«Lasciaci soli» l’ufficiale si rivolge al carabiniere che lo ha accompagnato fino all’ufficio e che esce dalla stanza chiudendo la porta.
L’uomo in divisa tende un braccio verso di lui. «Quindi?» domanda distratto.
Massimo infila la mano fredda e bagnata nella tasca dell’impermeabile verde e tira fuori una foto.
È una polaroid conservata in un astuccio di plastica, tipo quello portadocumenti.
Allunga lo sguardo sulla targa poggiata al lato della lampada e legge il grado del suo interlocutore, tralasciando, nome e cognome.
«Maggiore, deve aiutarmi. Sto cercando la mia bambina.»
Il maggiore prende la foto e dà uno sguardo veloce.

«Quando finirà questo acquazzone? È da ieri che non ci dà tregua» esclama il militare guardando attraverso la grossa finestra del suo ufficio. Poi si gira di scatto verso Massimo. «Accidenti! Ogni volta questa storia. L’altra notte con quella telefonata hai svegliato anche i bambini, e io non sono più riuscito a chiudere occhio. Possibile che ad ogni temporale mi tocca farti da balia?»
Massimo alza la testa spaesato e cerca di mettere a fuoco il suo interlocutore «Ma Maggiore, io…».
«Maggiore un cazzo! Questa cosa deve finire» sbotta ancora l’ufficiale. «Nostra sorella è morta, Massimo! È morta quella notte! Questa sulla foto non è la tua bambina. Non hai nessuno da cercare. Non è più tornata da quella sera d’estate, porca puttana». Sebastiano sfocia in un pianto nervoso lanciando la polaroid a terra. «Ho provato a richiamarti per tutto il giorno, ma a casa non c’eri. Ho mandato i colleghi anche in negozio. Dove sei stato?».
Massimo sembra ridestarsi da un torpore. Spalanca gli occhi. È spaesato nel ritrovarsi nell’ufficio del fratello. Ancora una volta. «Sebastiano, scusami! È successo ancora». Massimo sprofonda sulla poltrona e si copre il viso. Poi si rialza di scatto e va ad abbracciare il fratello. Il temporale fuori non fa più paura.

La pioggia sorprende Massimo che dall’alto della collina ammira l’orizzonte. Lì, in fondo, il cielo è limpido e la luna si specchia vanitosa sulle acque del mare. La sua luce bianca si interrompe bruscamente sulle nubi grigie e dense, che rendono quel panorama spettrale.
Non ha voglia di mettersi al riparo, la brezza si fonde all’odore della vegetazione bagnata e umida. Il ticchettio della pioggia si fa sempre più acuto e si trasforma in uno scroscio più intenso, fino a diventare violento. Massimo viene colpito da grosse gocce d’acqua. Corre verso gli alberi per mettersi al riparo, ma cade a terra e sente uno strappo al collo. Il laccio di cuoio si è lacerato, la conchiglia si è spezzata. La recupera e corre fino alla pensilina di un cancello di una villa. La grandine è così fitta che non riesce a vedere il margine opposto della strada, i grossi chicchi rimbalzano sull’asfalto creando un effetto irreale, come se dall’alto qualcuno rovesciasse una cesta infinita di palline di ping-pong. I tuoni e i lampi sono così prepotenti che annientano ogni istante di normalità. Flash e boato. Luce e rimbombo. Così per diversi minuti. Massimo sembra quasi stordito, chiude gli occhi e, ormai fradicio, si rannicchia sulle gambe. Forse cinque o dieci minuti e poi la quiete. Così come è giunto, il temporale si interrompe senza preavviso. La luna ora si riflette ovunque.
Massimo si rialza e apre gli occhi. Sente un senso di vuoto e ha bisogno di qualche istante per ridestarsi. Quell’attimo viene interrotto da sirene e lampeggianti che provengono dalla strada principale, quella che collega la collinetta della zona residenziale con il paese. Massimo percepisce un brivido gelido lungo la schiena e si lancia in una corsa incontrollata.

«Come è possibile?» Sebastiano è sgomento, ancora, tra le braccia del fratello.
Massimo raccoglie la polaroid e la guarda. «Che bella quella serata. Solo noi tre in gelateria. Non ricordo nemmeno chi ci ha scattato questa foto» dice teneramente.
«Perché l’hai rovinata? Perché hai cancellato i nostri volti? Eravamo tutti così sorridenti. Ginevra amava questa foto» dice Sebastiano.
Massimo ricorda quel momento. Ricorda la rabbia, la disperazione e i sensi di colpa. Ricorda le unghie che, freneticamente, hanno grattato via le loro espressioni felici. Poi prende un pennarello dalla scrivania e disegna due grossi puntini e un sorriso sui volti cancellati dalla fotografia. «Eccoci! Di nuovo tutti e tre, con gli occhi splendenti e un sorriso immenso!».

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