Le luci di Yakutsk

Federico Morescalchi

Ormai le stelle splendevano da un pezzo sopra il cielo di Yakutsk, immobile e grondante di silenzio nella sconfinata notte siberiana. Dalla finestra al tredicesimo piano avevo una vista perfetta sul fiume Lena e sul porto che correva lungo il suo cammino ondulato; in basso riuscivo a scorgere la piazza principale della città, dove sorgeva il museo dei mammuth e il cinema Asia, il più grande in zona. A pochi metri di distanza si trovava anche il Club Bezdomnyj, dove diedi un primo bacio, molti anni fa, a Kristina.

Lungo il fiume la città si distendeva come in due rami contrapposti che riflettevano le due anime di Yakutsk. A nord c’era il porto militare, che negli ultimi anni si stava sviluppando sempre più velocemente, sempre più impegnato nella catena logistica delle basi affacciate sul mare di Laptev; a sud avevamo il porto commerciale, dove arrivavano i prodotti minerari estratti da tutta la Repubblica di Sakha. Dalle miniere di carbone, oro e tungsteno sparse sul territorio partivano infrastrutture che le collegavano ai molti porti situati lungo la Lena. Tutto veniva poi convogliato verso Yakutsk, dove le materie prime erano trasformate in semilavorati e prodotti finiti.

L’area metropolitana estesa intorno a Yakutsk rappresentava il centro produttivo della regione, e molte industrie dell’area erano impegnate nell’approvvigionamento del cosmodromo di Vostochny, gioiello meccanico progettato dalle migliori menti slave. Ero contento di lavorare lì. Potevo mettere mano alla tecnologia più avanzata e godermi lo spettacolo di immense colonne di fuoco ogni volta che lanciavamo nello spazio qualche capsula Kliper. Adoravo il rombo assordante che precedeva e seguiva lo stacco da terra, mi sembrava incredibile che delle semplici scimmie fossero riuscite nei millenni a sviluppare la teoria che sta dietro a quell’enorme giocattolo, che fossero riuscite a far spiccare dal suolo una montagna di diecimila tonnellate.

La prima tessera del domino fu Prometeo. Intrufolarsi nella fucina di Efesto e rubare qualche lembo di fuoco agli Dèi per donarlo agli uomini fu il gesto che condusse alla sottomissione più totale. Sembrò a tutti un gesto benevolo, un dono di infinita delizia. Nessuno riuscì a vedere quella scintilla per quello che era, il primo plug conficcato nei nostri culi di felici ammassi organici.

Anni fa vidi un documentario. C’erano delle scimmie antropomorfe, una coppia di bonobo. Se ne stavano appollaiate sul ramo di un albero, il maschio lasciava penzolare le gambe ai lati dello spesso ramo e stava appoggiato con la schiena al tronco; la femmina, nel frattempo, gli stava praticando del sesso orale. Il maschio faceva quei versi da scimmia, si agitava con le braccia e si godeva quel pompino nel tramonto rosso sangue della sera congolese. Non riesco a credere che vivere quel quadretto fosse peggio di incamminarsi cinque giorni su sette lungo il traffico della statale A360 per raggiungere il cosmodromo di Vostochny, incolonnati in un mare di sardine, ognuna intrappolata nella sua personale scatoletta di metallo, ognuna affogata nella sua peculiare noia quotidiana. In inverno si possono tranquillamente raggiungere temperature anche inferiori ai -40°C, e il sedile riscaldato della mia Aurus non riusciva a farmi passare dalla testa l’immagine di quel bonobo, l’espressione del suo volto mentre quella bocca calda lo coccolava nella sera. Cos’è che ci aveva tirati giù da quell’albero, che ci aveva strappati dal caldo abbraccio della natura? Cercavamo un benessere maggiore, e nei primi stadi dello sviluppo tecnico il miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità fu incontrovertibile; chi poteva negare l’utilità di un aratro, l’omogenea eleganza di una ruota, l’ingegnosità di un sistema di pulegge? Prometeo, abile nel leggere il futuro come un Gran Maestro di scacchi, peccò comunque di sufficienza quando a domanda precisa dichiarò che la tecnica non avrebbe mai dominato la natura, il regno della necessità nel quale anche l’uomo era conficcato come una vite nel legno. Come fargliene una colpa? A quel tempo neanche un titano avrebbe potuto immaginare che saremmo stati in grado di scaricare 100 megatoni dall’altra parte del mondo con un errore circolare medio di una manciata di metri. Come stare a Pechino e colpire con una cerbottana un piccione a San Francisco, e radere al suolo l’intera California.

Vidi Kristina per la prima volta una mattina al bar dell’Università. Era seduta a un tavolo in disparte, sola. Leggeva qualcosa e ogni tanto sollevava lo sguardo e squadrava l’aria intorno a sé, dava l’impressione di farlo con molta attenzione; la osservai per una decina di minuti buoni, a volte restava immobile in posa da lettrice e lasciava che fosse un solo occhio a filtrare dalla lunga chioma dorata. Portava un trucco troppo pesante e troppo tanto, ma aveva qualcosa di ipnotico nei gesti. Era il modo in cui le sue lunghe secche dita sfioravano la pagina per voltarla, era il modo in cui aggrinziva il volto per dire senza dire, uno sguardo che non avevo mai visto, due occhi verdi in una pioggia di mascara scuro, gocciole a scivolare sulle foglie di un bosco. Quel volto diceva qualcosa che non avevo mai sentito, i lineamenti di un tempo antico, i silenzi di parole confuse.

La prima cosa su cui mi soffermai fu la linea che abbracciava il bordo inferiore del suo occhio, proseguendo verso il basso fino allo stretto fra la narice e i pendii finali della guancia, per rimontare poi lungo il profilo del suo nasino appuntito. Non era prorompente e radiosa, ma austera e distaccata. Quella bellissima carne slava, riflettente di luce come la superficie ghiacciata della Lena. Me ne innamorai senza aver mai sentito una sua parola.

Una mattina, sempre in quel bar, mi ritrovai imbambolato a fissarla da una certa distanza. Quando le capitò di alzare gli occhi dal libro, incontrò i miei; mi sorrise appena, le sorrisi appena, e niente mi sarebbe mai più piaciuto così densamente; non avrei mai più dimenticato quel momento, come se nel tempo di una foto avessi ridefinito il mio personale concetto di bello, e quindi di desiderio. Non so spiegarmi come capitò, capitò e basta. Anche questo divenne un fatto del mondo, e dovetti imparare a conviverci. Come un prodigioso scacchista, nello spazio di una mossa lessi il futuro delle mosse a seguire. Sul momento lo sentii soltanto, senza capirlo, ma poi divenne chiaro come in quel momento ci fosse già tutto: uno strano intendimento, la mia ossessione, la sua mancanza. Finalmente trovai una risposta alla domanda di Majakovskij; sentii senza nessun motivo di aver scovato un’amata uguale a me, ed ero contento che la volta del cielo riuscisse a contenerla, che le stelle di Yakutsk fossero le luci delle sue notti, Ploshchad’ Lenina il proscenio delle sue passeggiate al tramonto, e che il silenzio della neve si riflettesse sulle foglie dei suoi occhi.

A quel tempo erano passati due anni dall’armistizio in Ucraina. Avevamo annesso per intero, più o meno definitivamente, gli oblast di Kharkiv, Donec’k, Luhans’k e Zaporižžja, e altre porzioni di terra a est del Dnepr dagli oblast di Dnipropetrovs’k e Kherson. Le armi cessarono di fare fuoco quando la situazione fu a un passo dallo scoppio della terza guerra mondiale; dopo il primo anno di guerra l’intensità dei combattimenti cominciò a scemare, e per il successivo anno e mezzo ci preoccupammo di trincerarci dietro la terra che avevamo riconquistato. Il comando militare iniziò un’opera di riorganizzazione della struttura dell’esercito, in contemporanea a una mobilitazione che avvenne in tre fasi, e che in un anno reclutò un milione di soldati. Dopo l’armistizio continuammo a prepararci e a ripensare i piani di azione.

Un sabato sera sentii un impellente bisogno di andare a godermi un certo grado di abbandono al Club Bezdomnyj; quella sera ci suonava qualcuno della scena techno hardcore moscovita. Al di qua degli Urali non era così frequente ascoltare qualcosa che provenisse dal cuore dell’impero. Il bancone dove prendere da bere sembrava un unico blocco di pietra lavica solidificata, sopra al quale bicchieri stracolmi fremevano come serpenti a sonagli sotto i colpi della musica. Entrai già ubriaco, dopo mezz’ora lo ero a un grado più elevato, e la massa di corpi danzanti assomigliava sempre più a un unico liquido colorato che si rifrangeva in mille direzioni. Ogni drop di quella musica sembrava trascinarsi dietro la rivelazione di un qualche messaggio segreto. Il ritmo incessante e i bagliori di luce che si alternavano a una semi totale oscurità allentavano le catene della ridicola fermezza di ogni soggetto. Adoravo quel momento sottile in cui la coscienza si spezzetta in mille frammenti e nessuno di essi è in grado di dire nulla al corpo, e in quell’impasto di pulsione in ebollizione rimane soltanto carne, un oggetto che di sé sa solo dire ancora, finalmente libero. In quell’altrove nel centro di Yakutsk ci potevi trovare qualsiasi cosa, qualsiasi specie d’animale volessi incontrare, dalla cassiera di uno Svetofor al pilota di un T-14 Armata, un irriconoscibile burocrate avvolto dai fumi di qualche droghetta chimica o un tuvano di Kyzyl ancora maleodorante di zuppa di montone. Stavo scivolando nel groviglio umano nel tentativo di raggiungere il bancone del bar quando vidi di sfuggita quella che mi sembrò la chioma bionda di quella creatura senza nome, e cercai di divincolarmi nella sua direzione che era anch’essa dinamica in moto verso non so dove. Mi ritrovai in una specie di grossa anticamera dei cessi di fianco al bar, stracolma di gente in preda al proprio delirio, e vidi il suo volto attraversato dal fascio blu di un neon traballante. Stava sniffando ketamina disposta alla rinfusa su uno specchietto di quelli per truccarsi. Mi guardò con mezzo occhio e poi voltò completamente il capo, le dissi «ciao» fissandole le pupille dilatate come una macchia d’inchiostro riversa in una bacinella d’alghe. Tacque un momento, forse due, e ancora sporca di bianco mi disse «ne vuoi?», strafatta di analgesici e biascicando una specie di sorriso. Accettai con un movimento della testa, mi porse lo specchietto e mi feci la mia dose, tornammo indietro verso la pista da ballo, e dopo dieci minuti mi ritrovai fatto come un tacchino di Rostov-sul-Don, sempre un passo indietro rispetto ai movimenti del corpo, come se il mio scheletro avesse acquisito spazio sotto la mia pelle e potesse oscillare al suo interno come l’altalena di un parco giochi abbandonato. Indossava un vestito scuro oscenamente corto, avrei voluto inginocchiarmi e baciarle le gambe dalle caviglie su fino al buco del culo; era leggera come una libellula nei giardini Michajlovskij, torbida come le fogne di Sachalin. Da un tempo incalcolabile ci stavamo strusciando nella martellante ripetizione di suoni identici, le annusai la pelle nuda della schiena, salata e trasudante di colidrati, e sentii la specie richiamarsi come una bestia implacabile. Si voltò verso di me e finimmo a leccarci le lingue contro una delle colonne laterali; le piaceva mordere, lasciarmi striature di rossetto sul collo. Tornammo nei cessi della discoteca a farci ancora, bevemmo qualcosa non so cosa, finimmo a casa mia, arrivammo fino al letto, la spogliai e mi impiastrai la bocca del sapore della sua fica. Adoravo la sua pelle che sfregava come seta sulla mia, le mie dita che esploravano la sua, godere del suo godere, dell’odore del suo sudore. Mi addormentai con la sottile punta del suo naso che sfiorava la mia guancia.

Ci frequentammo due anni, io e Kristina. Di quel tempo ricordo gli immensi pomeriggi d’estate sulle panchine lungo la Lena, ascoltarla dire qualcosa, risponderle qualcos’altro, e così via, vederla uscire di casa la mattina con i pantaloni attillati sul culo, baciarla la notte sotto al piumone, guardarla pensosa al chiardiluna delle lunghe notti siberiane. Ci piaceva andare a ballare ubriachi come una coppia di buriati, le piaceva dipingere la sera dopo cena in salotto, e a volte aveva silenzi che duravano giorni, ma quando parlava adoravo il suo modo di posare la voce sulle parole. Mi sfuggì dalle mani come la cenere di un fiore.

Lei mi riconobbe e io riconobbi lei, non credo ci sia altro che abbia più valore, qualsiasi altra cosa poteva solo seguire da questo principio fondamentale; a noi capitò, e continua a sembrarmi assurdo come il dado del destino si fosse fermato sul suo volto, di averla un tempo incontrata in mezzo ai drogatelli di periferia al Club Bezdomnyj, sul fondo della notte nella tundra ghiacciata. Lei abitava sul viale Lermontova, di fronte al lago Saisar, un bacino artificiale alimentato dai canali della Lena, e ogni tanto passavamo il tempo da lei, ogni tanto da me, a seconda dei suoi orari in laboratorio all’Università. Si era laureata in chimica e a quel tempo lavorava a progetti finanziati dallo stato maggiore militare. In passato si era occupata della sintetizzazione di eccitanti psichici disinibitori, quei prodotti da fornire alle proprie truppe per vincere la paura prima dell’attacco, ma da un paio di anni era impegnata nello sviluppo di armi chimiche da impiegare tramite vettori della marina militare; almeno tre o quattro giorni al mese si recava infatti giù a Vladivostok, ai cantieri della flotta lì ormeggiata.

Un giorno le venne proposto di trasferirsi a Murmansk, nel profondo nord oltre il circolo polare artico, dove sostavano i nostri sottomarini strategici a propulsione nucleare, e dove avrebbe potuto avere un ruolo di primo piano nello sviluppo di nuovi armi chimiche e nella risoluzione di problemi pratici legati allo stoccaggio di queste stesse armi a bordo del naviglio più importante dell’intera marina militare russa. Decise di andare, e capii che non poteva essere trattenuta, e che forse neanche doveva, ma questo fu più complicato da spiegare al mio di-dentro. Ci fu un ultimo dialogo dal vivo fra noi due. Forse per giustificarmi in qualche modo il dolore che mi stava attraversando, le dissi che forse non andavamo bene insieme, che a lungo andare non avrebbe funzionato e che forse doveva andare così. Lei mi corresse. «Quando dici queste cose, stai sempre sottintendendo che starsi a fianco dal primo sguardo fin sul letto di morte è l’unico possibile risultato positivo, l’unica cosa da desiderare. Io invece ti penserò spesso, e se a volte non lo farò sarà senza alcuna cattiveria, senza la minima intenzione in tal modo di ferirti».

Andammo a letto un’ultima volta; uscì dalla porta e promettemmo di tenerci in contatto scrivendoci lettere. Per due anni ci scrivemmo, poi smise di rispondermi, e le scrissi ancora, senza mai risposta. Lei non c’era, ma i suoi sguardi passavano sotto le porte come nuvole di fumo. Il ritmico gonfiarsi e sfinirsi della Lena scandiva il tempo insieme alle piogge stagionali, e qualche lacrima non la rese certo più salata.

Mentre noi ci stavamo armando per riprendere la marcia su Kiev, la Cina continuò a testare la reale intenzione degli statunitensi di difendere Taiwan, e mise in pratica per diversi mesi ampie esercitazioni militari, navali e missilistiche, finché un giorno successe il misfatto. Durante una manovra di provocazione, un caccia cinese si avventurò troppo a fondo nello spazio aereo taiwanese, e venne abbattuto. Fu il casus belli. La marina dell’esercito popolare di liberazione mise in piedi un blocco navale intorno a Taiwan, e la fine, semplicemente, ebbe inizio. Il meccanismo delle alleanze si dispiegò con velocità e voracità: il mondo si trovò ancora in guerra.

Passarono un paio di anni in cui il conflitto finì per entrare sempre più nella quotidianità di ognuno di noi, incidendo sugli orari dei turni lavorativi, sulla disponibilità di beni di consumo, sulla capacità di programmare un futuro con un orizzonte sempre più breve, sull’addio a un figlio chiamato a servire al fronte la sua nazione. Un giorno uscii di casa per recarmi al centro di smistamento dei rifornimenti, un mercoledì sera al tramonto col rischio di bombardamenti giapponesi. Il razionamento del cibo era cominciato sei mesi prima, quando il Giappone aveva iniziato ad attaccare le infrastrutture sulla costa del Pacifico, e l’intensità percepita della guerra aumentava drasticamente, anche qua sul fondo della Siberia. Ogni mercoledì, dalle 6:00 alle 23:00, avveniva la distribuzione delle derrate alimentari. In quelle lunghe file c’era di tutto: volti tumefatti dal dolore, giovani vedove che si trascinavano sospinte da una disperazione muta, occhi avviliti come ingranaggi caduti al suolo. In un certo senso, quando la sofferenza viene spinta così in alto, è come una doccia purificatrice che rade al suolo ogni scorza: non resta che la mancanza, il senso della precarietà, e le persone tornano a essere solidali, a sentire l’altro, almeno un po’. Nel momento in cui la macchina si mostra con più forza, quando la sua domanda di carne si fa insopportabile, le leve e le carrucole di quell’orribile marchingegno diventano visibili, le catene acquistano sostanza, e sotto il loro peso, nel dolore più autentico, si sente condivisa una qualche pietà d’esserci, e qualcosa di umano riesce a emergere dal mezzo di quelle rovine accartocciate.

Quel mercoledì, percorrendo via Poyarkova verso nord a passo svelto, mi sembrò di scorgere una sagoma vagamente nota che procedeva in direzione opposta alla mia. Aguzzai la vista via via che ci avvicinavamo, e notai che lei non sembrava riconoscermi. Quando fui a un paio di metri da lei, infine, la riconobbi. Era la madre di Kristina. La fermai, la salutai, mi riconobbe anche lei. Dopo poco non seppi resistere.

«Kristina come sta? Sono due anni che non la sento».

Accennò un’imbronciatura del labbro.

«Kristina è morta due anni fa, a Murmansk. C’è stato un incidente nei laboratori dove lavoravano a qualcosa di chimico, e non ce l’ha fatta. Non ho neanche una lapide su cui piangere, hanno cremato il corpo ma le sue ceneri sono ancora in una specie di archivio centrale, non so dove di preciso. Credo che me la ridaranno soltanto dopo la fine di questa guerra, se mai ci sarà».

Una linea salata disegnava la superficie della sua guancia; ma non ebbi la forza di dire niente. Ci guardammo nel silenzio e capimmo senza bisogno di parlare; le feci un cenno e ognuno proseguì per la sua strada. Imboccai una sequenza di vie a caso, mi ritrovai a camminare in silenzio per ore e altre ore per quegli anfratti di Yakutsk che portavano dentro una memoria che ormai non poteva che essere memoria. Percorsi chilometri di strada fino a tardi, nel più cupo silenzio della notte, fino a quando trovai le forze di rientrare al mio appartamento. Preparai un tè e mi sdraiai sulla poltrona davanti alla finestra della sala; accesi una sigaretta, feci un tiro e la lasciai poi consumarsi da sola, sporcandomi i pantaloni di cenere. Si spense, ne accesi un’altra e un’altra ancora. Dopo mezz’ora ero ricoperto di cenere, il tè era freddo immobile abbandonato nella tazza. Non riuscivo a biascicare una singola parola, un solo pensiero. Sentivo solo l’aria pesante come piombo e la testa ripiena di tungsteno; non avevo la più pallida idea di come reagire, semplicemente era come fosse sceso il sipario sul palcoscenico di un teatro sempreverde, come se una prima ballerina del Bol’šoj fosse morta scivolando dalle sue stesse punte dei piedi. Presi un bicchierino e lo riempii di vodka fino all’orlo, ci infilai con due dita un cubetto di ghiaccio che la fece strabordare fra le mie mani. Aprii la finestra, piantandomi con i gomiti sul davanzale, mentre il fumo del tabacco stretto fra le labbra risaliva verso l’alto come un vagabondo indifferente. Le luci di Yakutsk erano spente per non renderci ancor più facile bersaglio dei bombardieri, e l’attesa di qualcosa di osceno permeava i granuli di ghiaccio sospesi nell’aria. Fu allora che quella mancanza germinò i suoi fiori orribili, e all’improvviso mi sentii come fossi solo al mondo, come se ogni parola che pronunciassi cadesse in uno sterminato campo vuoto; non c’era nessuno ad ascoltarmi, e adesso tutta quella neve era soltanto una grande macchia bianca.

Al risveglio, assistetti al superamento del punto di non ritorno: i finlandesi sfondarono a nord il fronte russo in direzione Kandalaksha, riuscendo a tagliare ogni collegamento via terra con la penisola di Kola, la Flotta del Nord ormeggiata a Murmansk, almeno cinquecentomila uomini di fanteria, e qualche centinaio di testate nucleari lì stanziate. Era troppo. Nella notte del 21 Dicembre 2032, alle ore 05:23, un missile Kh-101 armato di una testata da 10 megatoni partì da una piattaforma di lancio presso Kaliningrad, direzione Helsinki, che venne rasa al suolo pochi minuti dopo. L’ultima tessera del domino era caduta; immaginavo qualche burocrate in una stanza dei bottoni a frugare disperato dentro al manuale delle procedure mai testate, sperando di trovarci cosa fare adesso che era troppo tardi. L’illusione del controllo durò lo spazio di quarantotto ore, in cui si cercò di concertare ciò che non era possibile mediare, mezzo milione di persone morte nello spazio di un sospiro, sciolte come lombrichi al sole. Come ritorsione, dal tramonto all’alba venne scaricata una pioggia di ottocentocinquantasette missili tomahawk, venne affondata l’intera Flotta del Mar Nero e trasformati in macerie i porti e le infrastrutture militari di Sebastopoli, Mariupol e Berdyans’k, al modesto costo di neanche due miliardi di dollari in armamenti utilizzati. Da un punto di vista strategico, perdere il controllo sul Mar Nero fu una tragedia ben più grave che un milione di soldati catturati dal nemico, oppure tritati dai loro cingolati e dall’artiglieria pesante. Decidemmo di non demordere e iniziammo a lanciare buona parte di quello che ci era rimasto contro le principali basi Nato in Europa, quelle di Ramstein, Deveselu, Incirlik, Łask, e così via; i bombardamenti andarono avanti per dieci ore, al termine delle quali due sottomarini nucleari Nato presenti nel Baltico ruppero gli indugi e scaricarono infine le loro testate sul centro di San Pietroburgo. Nello spazio di un lampo rimase meno di nulla della città, del teatro Mariinskij e della sua filarmoca, dell’Ermitage e del suo club di gatti. Nelle ore successive il fiume Neva si fece grigio e raccolse le ceneri di milioni di russi.

L’escalation era ormai inarrestabile. Chiunque ne fosse stato in possesso cominciò a servirsi delle proprie testate nucleari, dando sfoggio delle dottrine missilistiche sviluppate per decenni. Noi cominciammo a fare fuoco sui principali centri di potere del nemico, ma il vero obiettivo su cui concentrammo la nostra capacità di tiro fu la base industriale e logistica degli americani: nessuno avrebbe potuto dirsi vincitore di questa guerra, potevamo solo cercare di rendere lenta e difficoltosa la ricostruzione degli asset fondamentali del nostro nemico, per essere in grado di vincere la prossima. Vidi una manciata di Iskander ridurre Berlino a una piana desolata, senza neanche più le lacrime di una sola madre o un battaglione di carri Leopard pronti al fuoco, e non nascondo che per un attimo ne fui contento, avevo sempre odiato il loro credersi migliori, tronfi di boria nei loro elmi chiodati, così come lo erano a Stalingrado, e ora ne rimaneva soltanto un brutto sogno che si scorda al mattino. L’India bombardò Islamabad e i suoi porti sull’oceano, mentre i persiani iraniani fecero polvere di Istanbul, cuore pulsante dei mongoli d’Anatolia.

Potrei stare qui a dirvi dei morti, della loro distribuzione geografica e densità media, dei disperati appelli dei capi di stato, intellettuali e dive pop che si susseguirono frenetici per un pugno di ore, dei capannelli di persone che si ritrovarono insieme a pregare, nelle strade, nelle case, delle scene di vandalismo, sciacallaggio, isteria. Dei pianti disperati di chi non sapeva più dove trascinare il suo grande amore, degli stupri consumati negli angoli più neri di Yakutsk e del mondo intero; ma che senso avrebbe? A un certo punto venne anche il nostro momento, e ognuno lo visse solo, come sempre accade. Le luci sopra Yakutsk divennero le scie di missili balistici ipersonici a bassa rintracciabilità radar, l’apogeo della tecnologia umana. Dalla finestra al tredicesimo piano lanciai un ultimo sguardo alla città, al Club Bezdomnyj e alla Lena, che come un serpente si corrugava lungo l’orizzonte in fiamme.

La fine arrivò veloce su ali di materiale composito, e nessuno ebbe tempo di chieder perdono dei propri peccati. Quale era il saldo finale da tirare su questo enorme formicaio? Il dolore, il dolore vero, la fame, i soprusi, l’orribile godimento del dominio, erano stati tutti compensati? Valevano, questi orrori, la strafottente acutezza di un nazista come Heisenberg, la balbùzie di un Dante o Petrarca, il multiforme ingegno di John von Neumann, una manciata di versi di Brodskij, oppure l’orribile morte di Berlioz agli stagni Patriaršie? Non so dare una risposta a questa domanda, che di fatto è l’unica vera domanda: ne è valsa la pena?

Mi alzai dalla poltrona e mi avvicinai alla finestra. Accesi una vera ultima sigaretta e mi trovai a vagare con le mani nella libreria termosaldata in betulla posta a sinistra dell’ampia vetrata. Trovai con le dita una lettera che avevo scritto per Kristina e che aveva perso ogni motivo per essere spedita. Le avevo semplicemente ricopiato una strofa letta chissà dove, volevo dirle qualcosa per cui sentivo di non possedere parole:

Io ero soltanto ciò
che tu sfioravi col palmo della mano,
su cui nella sorda, scura notte
chinavi la fronte.

Lei era già morta quando infilai quel foglio in una casta busta bianca. Quella morte fulminea non ci avrebbe riuniti da nessuna parte, quella mancanza non era sanabile, poteva solo essere estirpata, un fuoco che spegne un altro fuoco.

La scia del missile che ci scelse si muoveva in direzione del cosmodromo di Vostochny ed esplose a una certa altezza da terra, a perpendicolo sopra l’ufficio dove lavoravo. In un attimo una sfera di plasma incendiato liquefece qualunque cosa nel raggio di svariati chilometri, gli uccelli scapparono dal cielo in enormi stormi caotici e ordinati insieme, la natura sospirò un ultimo respiro. Non rimase in piedi niente che fosse più alto di un tavolo da cucina; avevano fatto bene i conti sull’altra sponda del Pacifico.
Fu un’esplosione bellissima, l’atto finale del dominio della macchina sull’uomo. L’ascesa all’empireo dell’Efficienza era stata finalmente compiuta, e la Produttività in quanto tale divenne la vera Padrona del Mondo, senza più il canto di una sola scimmia a perder tempo con l’amore o con il cielo. Alla fine rimase davvero solo la terra brulla e fumante. Quella nuvola di polvere che si muoveva a centinaia di chilometri all’ora impiegò davvero poco a percorrere quella statale A-370 che tante volte mi aveva condotto al poligono di tiro, e piombò accecante di rumori sul centro di Yakutsk. Ce ne andammo in un solo momento, tutti insieme, e non rimase nessuno a piangere nessuno.

Mi chiamo Fëdor Nikolavskij. Nacqui in un posto dimenticato da dio, esistente solo per lo sfruttamento delle sue miniere e la difesa dei confini nazionali. Non ho scelto dove né quando, adoravo le esplosioni sofisticate, rese possibili dal mondo che disprezzavo. Volevo solo fare quello che mi piaceva fare, volevo solo giocare

Racconti correlati

Lascia un commento