Libertà (forse)

Lucia Urbano

Aveva scelto un tubino rosso per quella sera. Nelle occasioni in cui lo indossava le facevano un mucchio di complimenti. Gli altri. Amici, colleghi. Per Luigi Emma era invisibile. Quel pomeriggio si era fatta anche un nuovo taglio, una testa di capelli corti che le lasciavano il collo scoperto. Così lo valorizzi, le aveva detto il parrucchiere di una vita. Nel passaggio dei quaranta i cambiamenti aiutano.

Per cena aveva fatto pesce: code di gambero su crema di cannellini, insalata di mare calda e catalana, il piatto preferito di suo marito. Aveva speso una cifra. Ne valeva la pena. In frigo, un Cesarini Sforza per iniziare. Poi un Müller Turghau, anche se lei avrebbe preferito il Vermentino di Luni.
“Ci… sediamo?” gli disse con un sorriso tirato.
“Arrivo tra un minuto”, rispose lui distrattamente. Era rientrato da poco, aveva ancora in piedi le calzature modello Scarpa pesanti, ma sempre trendy, che indossava in giornate come quella. 

Fuori i lampi cadevano come frecce, infilzando il buio. Da un momento all’altro si sarebbe scatenato l’inferno, pensò Emma. La sera ideale per loro due. Luigi glielo aveva detto, dal bagno, la sera prima: nessuna reperibilità domani. 
Erano state pienissime per lui, le ultime settimane. Gli impegni in ospedale sembravano aumentare a dismisura. Tornava a casa quasi sempre molto tardi, non c’era verso. Le volte che la trovava addormentata sul divano e lei gli riscaldava la cena e lo guardava mangiare non si contavano. D’altra parte le dispiaceva lasciarlo solo, quando tornava stanco da una giornata stressante. Era suo marito, no? Anche quando lui le mandava un messaggino con scritto Scusa amore, faccio tardi anche stasera, un’urgenza dopo l’altra, scusami, non mi aspettare, lei finiva per spiluccare qualcosa alla TV, lasciando la tavola apparecchiata per due. Così condividevano un calice di vino, meglio di niente.

Luigi aveva ancora in mano il cellulare, ora. Aveva sulla faccia una specie di sorriso appena accennato. Emma lanciò uno sguardo senza riuscire a leggere la chat, ma le sembrò di vedere il rosso dei cuori. Sentì scendere lo charme. 
Stavolta non devi caderci, si disse. È solo una provocazione. Non esistono coppie felici, le aveva ricordato Laura anche nell’ultima telefonata, poche sere prima, quando lui a mezzanotte non era ancora tornato e lei l’aveva chiamata. Non solo non era ancora tornato ma non aveva neppure visualizzato i suoi messaggi. Non devi raccogliere la provocazione, le aveva detto la sua amica. Sii te stessa, rimetti in giro un po’ di energia femminile, che ce l’hai. 
Si girò verso i fornelli.
“Va bene, quando vuoi”. Gli passò vicino, facendo un giro largo per mettere in tavola il pane. Lui non staccò gli occhi dal telefono. Emma provò a incrociare il suo sguardo.
“Se si freddano è un peccato” aggiunse a bassa voce.
Si sedettero: Luigi appoggiò il cellulare sulla sedia vuota accanto alla sua. Lei lo vide buttare sguardi in quella direzione. È normale quando uno fa il suo lavoro, si consolò. E poi come lo faceva lui, uno che non si tirava mai indietro. C’è sempre qualcuno che rompe a tutte le ore, le ripeteva spesso con dolcezza. 
Le raccontava molto del suo lavoro, Luigi. Specie nell’ultimo periodo. Poche sere prima le aveva fatto una testa così sulla vita misera di una delle OSS del suo reparto che riusciva a fatica a sbarcare il lunario, sola con una bambina piccola. 
“Dovresti vederla, amore. Si vede che ha proprio bisogno di essere ascoltata e compresa, non come fanno tutti che la sfruttano e basta. Non smetterebbe più di parlare, quando ha un po’ di tempo libero durante il turno.”

Erano uno di fronte all’altra adesso, in un silenzio irreale. Emma gli sorrise continuando a cercare il suo sguardo, mentre lui le versava il Cesarini Sforza. Il cellulare continuava a vibrare rumorosamente mentre lei versava l’emulsione sull’insalata di mare. Non lo lasciano mai in pace, si disse. Evitò di guardare il display.
“Senti, ho da fare anche stasera. Mi stanno chiamando, c’è un’emergenza in ospedale.”
Le parole rotolarono come massi giù per una scarpata. Non si potevano fermare.
“Ma avevi detto che non eri reperibile stasera” le uscì in un sussurro.
“E invece”, soggiunse Luigi afferrando un gambero con le mani. “Buoni però.”
“Ma non hai ancora sentito il meglio, digli che arrivi tra un po’…”
“Senti, non si può recuperare domani magari?”
Lei gli si avvicinò. 
Non ricordava quanto tempo prima bastava che si sfiorassero, quel profumo nelle narici ed era fatta. Una scopata riparatrice li rimetteva al mondo. Non doveva essere passato così tanto tempo… forse si era distratta un attimo, certo. L’ultimo progetto per l’università le aveva portato via parecchio tempo. C’era stata quella sera, se lo ricordava, in cui lui era entrato in casa con quel sorrisone, le si era accostato da dietro e le aveva sussurrato sfiorandole il collo con le labbra usciamo, dai, stasera ti porto a cena in un posto che ho scoperto. Quanto tempo fa? Qualche mese, non di più. 
D’altra parte non si divertiva mica lei, aveva avuto veramente troppo da fare in quel periodo. Il lavoro per loro era tutto, se lo erano sempre detto. Doveva consegnare ma poi avrebbe dedicato più tempo a lui, a loro. Promesso. 
E ora che ci provava, nulla. 

Sarà un momento passeggero, l’aveva rassicurata Laura. Lei era loro amica da sempre, li conosceva troppo bene.
“Ma sei sicura? E se si fa un’altra?”
“Ma chi, Luigi? Scherzi?”
“No, vero? Non può essere, dai”, aveva sussurrato a sé stessa. 
Certo non glielo aveva detto a Laura che da qualche sera quando lui entrava nel letto sapeva di un odore sconosciuto. Una nota di fondo ambrata mista ad alcool, whisky o qualcosa del genere. Non era brava a distinguere i superalcolici, Emma. La loro storia era costellata da calici di vino. 

Una sera glielo aveva sussurrato, a letto.
“Sai di qualcosa…”
“Ma che dici, sarà l’odore dell’alcool, di ospedale, di che vuoi che sappia?”
Non aveva aggiunto altro…  però non le sembrava quell’alcool…  ed era mischiato a un profumo di donna. Lo aveva sentito nettamente. Ma la mattina dopo non era più così sicura, a volte le capitava di sentire l’odore di alcool misto a quello dei malati anche ore dopo che Luigi era tornato a casa. Le entrava nel naso e non voleva andarsene. Ne avevano perfino riso insieme, i primi tempi. E poi il loro matrimonio, quella festa così bella piena di amici che gli volevano bene, se lo ricordava, era lì, palpabile e chiarissimo.

Rimase seduta e aprì la lettera. Era il momento.
“Aspetta un attimo, volevo dirti…”
“Sì ma veloce, mi stanno chiamando.”
Ora o mai più. Appoggiò il foglio sul tavolo.
“Ho vinto quell’incarico, guarda. È scritto qui. Un anno alla Sorbona, però non so…”

Ecco, lo aveva detto. In realtà avrebbe dovuto dirlo lui, ma come, e allora che fai, vai via un anno e noi, eccetera. Lei allora avrebbe sorriso compiacente e avrebbe risposto non ho ancora accettato, ho preso un po’ di tempo. Ho un ritardo di quindici giorni e ho fatto il test, è venuto positivo amore, sei felice, avremo un figlio o magari una figlia. Non avrebbe affrontato una gravidanza da sola lontano da casa, certe scelte non si possono fare e basta.

Ora, ferma in piedi davanti al nastro bagagli, si rigirava quel foglio tra le mani. Non capiva ancora come cazzo fosse successo. Fatto sta che in alto, nella sala, campeggiava la scritta Bienvenue à Paris.
Parigi l’aspettava. Con un figlio in arrivo.

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