Lovegiver

Alessandra Cella

Era andata a ballare, una sera. Quando la canicola dentro il locale si era fatta insopportabile, Rossana andò verso la spiaggia con i sandali appesi a una mano e una birra già calda nell’altra. Immersa in una sorta di liquido amniotico, percepiva i suoni filtrati come sfilacciati e provava l’impulso di avanzare lenta dentro l’acqua nera, dentro l’utero infinito che si stendeva davanti ai suoi occhi. Inspirò profondamente e fece uscire un sibilo di megattera.

Poi aprì i palmi lasciando cadere ciò che non era necessario tenere, e li rivolse al mare. Il vento le gonfiava i pantaloni di lino. Istintivamente cercò di fermarli, come se qualcuno potesse spiare cosa c’era sotto, come se rischiasse di restare nuda. Non si scopriva mai le gambe, se non in piscina. Avrebbe voluto una coda di sirena al loro posto, le rifiutava e non senza vergogna. Sapeva che avrebbe dovuto essere grata per il solo fatto di averle e così, per farsi perdonare, le accarezzava e le allenava moltissimo. Rossana. Solo canto, ripetitivo e prevedibile, si diceva. Questo sono. Devo trovare la mia forma di preghiera personale, la mia litania del quotidiano che mi conduca al centro, pensava, mentre i polsi iniziavano a bruciare nella tensione del gesto.

Vedeva Antonio da un anno. Lei entrava nello spazio di lui ogni sei settimane con la leggerezza di uno sbuffo, e lui stringeva gli occhi più forte che poteva affinché non trapelasse quello che provava. Era bella, Rossana. Aveva seni piccoli e sfacciati che s’intuivano da sotto le maglie oversize, fianchi disegnati con minuzia e muscoli torniti dal nuoto praticato nella piscina vicino casa. Era là che si erano visti la prima volta. Rossana stava per tuffarsi e aveva incrociato lo sguardo di Antonio, prima di guizzare nella vasca.

Ad Antonio era venuta subito una voglia scomposta di entrare dentro di lei e il suo corpo non aveva potuto trattenersi. Quando si erano rivisti nella sala comune degli asciugacapelli, Rossana si era sentita osservata e non aveva esitato ad avvicinarsi con la naturalezza dell’onda sulla battigia. Antonio era stato terribile, invece. Non era riuscito a emettere un suono. Rossana gli aveva poggiato sulle gambe il biglietto da visita con il suo numero di telefono, prima di andare via. Pensò che non le era mai capitato di approcciarsi a qualcuno con tale urgenza. Antonio era sicuro glielo avesse letto in faccia che non aveva mai fatto l’amore. Analfabeta della carne, non conosceva la geografia del proprio corpo se non nei suoi anfratti spigolosi e nelle ruvidezze.

Dopo una settimana, Antonio aveva preso coraggio e l’aveva chiamata. Si erano dati appuntamento a casa di lui, era un pomeriggio di settembre. Rossana aveva ancora sul viso il colorito ambrato dell’estate, Antonio invece era del suo solito pallore. Lei si era sentita subito dentro uno Space Shuttle, lui catapultato nel Paradiso perduto di Cuarón. Chi sei? Cosa ti piace? Dove vorresti andare? Perché siamo qui? Ti ho fatto preparare del tè. Vorrei rivederti.

Da lì in avanti, avevano continuato a farlo. Rossana gli stava insegnando la differenza tra uno sfioramento e una pressione, tra un pizzicotto e una carezza, accendeva una luce su desideri che lui non sapeva di avere, su quello che preferiva o che, al contrario, lo respingeva. Aria, ossigeno, elio-ossigeno, azoto-elio-ossigeno. Antonio subacqueo in immersione, Antonio a strapiombo sulla libertà. Anche per Rossana era una prima volta. Socchiudeva le imposte cercando di fare piano; il prato tagliato di fresco, il cane, le rose e occhi indiscreti restavano fuori. Dentro, solo il pulviscolo acceso dal sole. Dapprima si osservavano da una certa distanza, fin quando lei si sedeva sul bordo e a quel punto Antonio deponeva la maschera. Si proiettavano l’una verso l’altro, il respiro di Antonio si rompeva così come le sue costrizioni. Aria, ossigeno, elio-ossigeno, azoto-elio-ossigeno. Antonio subacqueo in immersione, Antonio a strapiombo sul piacere. Rossana gli prendeva la mano, delineavano insieme un tracciato. Lei sentiva freddo, lui si percepiva respingente, con la pelle dei polpastrelli che si disfaceva a ogni tocco. Di lì a poco, comunque, sarebbero sprofondati.

Quando si accorgeva che per Antonio era troppo, Rossana si fermava. Quando era troppo per lei, immaginava di abitare un altro corpo, un corpo senza tormento, un corpo impermeabile. Usavano delle piume per toccarsi, per giocare a nascondersi, per diventare uccelli, pesci tropicali, felci eleganti. Antonio era sempre sul punto di dire qualcosa, ma le parole morivano in gola. La guardava, poi chiudeva gli occhi, voleva sciogliersi in lei. Rossana gli massaggiava i piedi immobili accucciata al fondo del letto ed entrambi si riappropriavano dell’antica memoria di ciò che erano stati. Aria, ossigeno, elio-ossigeno, azoto-elio-ossigeno. Computer, comunicatore puntamento oculare, tutto spento. Riaccendi tutto ora, Rossana. Riaccendimi, ti prego. La luce, dopo i loro incontri, sbiadiva fuori dalla finestra e il profumo di lei si dissolveva sulle note del valzer che era solita mettere quando erano insieme.

«Ho dei gusti antichi», gli aveva detto passando in rassegna con lo sguardo le pareti nude della sua stanza, la prima volta che ci era entrata. Mentre la osservava muoversi, Antonio pensava a quanto l’esperienza umana non fosse confortante. Al contrario, lo erano le braccia di lei, che si curvavano come giunchi vibranti in un canneto. Per la prima volta nei suoi ventisei anni, la pancia percepiva quella dimensione sovralunare perfetta, lontana dalle brutture del mondo.

«Perché fai questo mestiere?» le chiese Antonio quel giorno, incespicando sulle parole.
«Quando nuoto, faccio pace con le parti di me con cui sono in conflitto. Mi strappo i lacci di dosso. Così penso che tutti dovrebbero poter nuotare e fare sesso, no?»
«Ma tu te ne andrai presto», disse Antonio, di nuovo a fatica, sentendo il calore della guancia di Rossana che ora si era avvicinata al suo collo.
Sì, questo è il nostro ultimo incontro, pensò Rossana prendendo fiato. Una lovegiver non deve lasciarsi coinvolgere, questa era la prima condizione. Se vai fuori tempo massimo e oltrepassi il limite, il tuo paziente rischia di innamorarsi. Forte la vita che circolava in quella stanza, si riempì le narici dell’odore pungente di arancio amaro, il deodorante usato da Antonio quando si vedevano. Aria, ossigeno, elio-ossigeno, azoto-elio-ossigeno.

Rossana avrebbe voluto un regolatore di flusso emozionale. L’urto che aveva subito con Antonio lo sentiva gorgogliare nelle viscere, le bolle dentro l’umidificatore sembravano volerla provocare. Fece una giravolta. Si portò davanti a lui, e i suoi piedi, nell’ultimo intreccio di quel gesto infantile, le fecero perdere l’equilibrio. A terra, Rossana era come una stella marina fuori dall’acqua. Antonio mosse l’indice, lei allungò la mano per toccarlo, ma lui ritirò il braccio, lasciando scoperta la pelle smerigliata, quasi sconcia. Fuori s’era fatta sera e nella semioscurità della stanza Rossana vide luccicare gli occhi di Antonio, fissi al soffitto. Si avvicinò, strisciando, fino alle sue labbra.
«Posso?» chiese, e senza attendere la risposta gli diede un bacio.

Le mani di Antonio strinsero le lenzuola, Rossana si spinse verso la cannula sul collo di Antonio e mosse piano il capo, da sinistra a destra, facendola oscillare, come quando faceva naso a naso col suo gatto. Se le tocchi, le stelle marine muoiono, pensò. Poi lo baciò di nuovo e a lungo.

Aveva appena contravvenuto al regolamento.

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