A Silvia piaceva bere l’acqua del suo acquario. Odorava di erba medica e pietra focaia; a volte ci sentiva perfino il sapore di Claudio, amaro e un po’ acido come fosse lievito; almeno così non lo scordava. Silvia sapeva che l’ acqua avrebbe potuto farle male ma spesso l’afferrava una malinconia. Allora, vicino al bordo della grande vasca, sistemata al centro del soggiorno, immergeva una mano per raccoglierla col palmo, china sopra i pesci colorati.
Quando la sua pancia iniziò a gonfiarsi dapprincipio non ci fece molto caso. Neppure quando perse l’appetito e prese a diventare grigia si preoccupò. I suoi capelli ricci si fecero radi e sottili, gli occhi lucidi e scuri presero il colore dei fondali melmosi. Silvia smise di guardarsi allo specchio.
Una notte sognò un silenzio fluido premerle sulle orecchie e poi il rumore delle cernie quando, appena pescate, sbattono sul fondo della barca e capì di aver bevuto un uovo dell’acquario. Per giorni si torturò su come liberarsi senza aiuti. Non aveva certo voglia di spiegare come le fosse entrato un pesce nella pancia. Non mangiò per due giorni e sentì che quello, dentro, si arrabbiava. Allora annodò una sarda al capo di un filo da pesca e la inghiottì senza masticare, tenendo l’altro capo in mano. Attese finche non senti il filo muoversi in bocca; poi prese a sfilarlo piano finché sentì tirare. Strattonò. Le parve quasi di soffocare quando il pesce saltò fuori dalla gola per poi cadere a terra, torcendosi furioso. Era bianco, grande come una carruba.
Non somigliava a nessuno dei pesci del suo acquario. Ne aveva comprati tantissimi, nel negozio sotto casa, fino al giorno dello scoppio. Il boato si era udito per tutto il vicinato e anche lei era subito corsa giù, per la rampa dei box del condominio. Quando Claudio fu soccorso era ancora vivo. Lei non ricordava quasi nulla del suo corpo bruciato. Qualcosa aveva bloccato le immagini nel viaggio infinitesimo dalla retina al cervello, distruggendole per sempre. Rammentava solo le gambe. Le erano parse simili a quelle di una signora rovinata a terra per una brutta caduta che le ha strappato via pezzi di calze.
Il pesce, facendo leva con la coda, saltò fin dietro al divano verde e poi sotto la libreria; si attorcigliò sulla prolunga della televisione mentre lei, inorridita, si teneva lontana, le spalle incollate alle pareti del soggiorno, aspettando che l’agonia avesse fine. Era quasi sera quando il pesce, di colpo, smise la sua danza disperata. Silvia decise che lo avrebbe spinto verso il balcone per gettarlo fuori e corse in cucina per prendere una scopa. Poi, cauta, si avvicinò. Con le setole lo sollevò da terra. Percepì il suo peso. Pensò che non fosse lei a farlo scivolare dentro l’acquario. Il pesce prese a scendere verso il fondo, lentamente. Pareva che l’acqua intorno si spostasse fluida per farlo passare, senza toccarlo. Urtò un corallo rosso e deviò un poco. Toccò il fondale senza alzare sabbia e si adagiò. Immobile. Silvia si convinse che fosse morto. Era arrabbiata per non averlo gettato ma non aveva voglia di tirarlo fuori dalla vasca. Non voleva sentire ancora il suo corpo, sul retino per la raccolta.
Esausta e confusa dal rigurgito e il digiuno crollò sul divano. Davanti, i suoi pesci colorati nuotavano silenziosi fra leggeri cambi di direzione e piccole soste; nei riflessi delle luci, le piante danzavano sinuose. Chiuse gli occhi. Era notte fonda quando li riaprì. Nascosto fra i ciuffi verdi della lemnophila, il pesce bianco osservava gli altri. Silvia sentì la sua fame. Il pesce rosso, si era avvicinato alla lemnophila. Penny era costato pochissimo ma risultato fra i più longevi. Curioso e veloce aveva il corpo e la coda vermiglia sempre in movimento; anche quando se ne stava davanti alla grotta di Sue, il pesce blu che non usciva quasi mai. Il pesce bianco non mostrò nessuna esitazione nel mordere Penny, immediatamente, ad un fianco. E poi a continuare, senza fermarsi, in un assurdo ballo di piccoli scatti e morsi. Penny non fece nessuna resistenza e presto fu ridotto in brandelli. Impietrita, Silvia osservò i suoi piccoli resti posarsi sul fondo di ciottoli bianchi mentre l’assassino si rintanava in un anfratto delle rocce dove, Silvia si rese conto che sarebbe stato impossibile stanarlo, a meno di non svuotare tutta la vasca. Andò a letto pensando che avrebbe dovuto piangere per Penny.
La mattina successiva uscì per acquistare dei piranha in un negozio che non conosceva perché specializzato in predatori. La avvisarono di quanto fossero pericolosi ma lei doveva al più presto liberarsi del pesce e, in cuor suo, sperava di aver giustizia per Penny.
Non andò così. In poche giorni, il pesce bianco divorò i nuovi arrivati ad uno ad uno, vorace. Aggrediva la sera. Quando Silvia tornava a casa. La sua bocca azzannava veloce e violenta e lei seguì ogni scempio combattuta fra il disgusto e un desiderio di incitarlo, ripetendosi che doveva tirarlo fuori al più presto dalla tana dove si nascondeva dopo ogni attacco. Un giorno toccò ad un ancystrus verde e giallo che aveva chiamato Rosy, come la maestra di scuola, alle elementari. Poi fu la volta di Paul, il pesce angelo che aveva l’abitudine di tenere la bocca fuori, di tanto in tanto, come se l’acqua gli venisse a noia. Silvia soffrì per i suoi pesci fino a sentirsi male, impotente dietro al vetro. Ma non si perse nessun combattimento.
Il pesce bianco non aveva pinne. Sembrava incapace di nuotare; piuttosto, si muoveva con scatti bruschi, aggredendo da dietro. Ma per Reggie il trattamento fu diverso. Silvia non lo avrebbe mai ammesso, ma il pesce dorato era il suo preferito. Era arrivato una sera di aprile che profumava già d’estate. Si era fermata al negozio dei pesci sotto casa, di ritorno dal funerale di suo padre, e aveva chiesto del più costoso. Il pesce bianco attaccò Reggie frontalmente. Mordendolo sulle branchia destra e non mollò la presa finche non cessò di agonizzare. Silvia seguì la sua morte come rassegnata. Le sembrava inevitabile; nell’acquario non c’era rimasto quasi nulla che il pesce bianco non avesse divorato, con ferocia. Iniziò a comprare mangime e pesci solo per saziarlo.
Una sera decise di spostare il divano per osservare meglio lo spettacolo di un ciclide dalla pinna a vela agonizzante sotto i colpi del suo aguzzino. Cominciò a diradare le uscite con sua sorella e con le amiche dell’università per dedicarsi all’ acquario a fine giornata. Il pesce aumentò di peso ed era piuttosto grosso quando Silvia si disse che doveva vedersela con un predatore degno di lui. In rete scopri l’esistenza dei piranha vampiro. Il negozio specializzato si occupò di procurarsene un esemplare e una sera Silvia tornò a casa con un pesce enorme, dai denti aguzzi e un aspetto primordiale che il venditore aveva chiamato payara.
Prese anche degli hamburger ed una birra e spostò il tavolino della cucina per mangiare davanti all’acquario. Poi liberò il nuovo arrivato nella vasca. Rimase delusa, perché i due pesci rimasero solo ad osservarsi, senza attaccare, per tutta la sera. Silvia si infastidì molto di quel comportamento e per quasi una settimana non si curò di fornire mangime o altro cibo, mentre loro si tenevano a distanza nell’acqua. La sua attesa fu premiata. Un giorno tornando a casa scopri che il pesce bianco aveva ucciso e mangiato il nuovo arrivato. Euforica decise di premiarlo e comprò i pesci tropicali più grossi, cercando nei negozi fino all’ altra parte della città. Passava ore in ufficio ad immaginare cosa Fred, come lo aveva chiamato, stesse facendo, come sfamarlo o come la sera prima avesse attaccato un piccolo pesce pagliaccio.
Il divano ed il tavolo da pranzo non erano più tornati al loro posto. Silvia si convinse che Fred aspettasse il suo rientro la sera. D’ altra parte lei non tornava mai a mani vuote. Scoprì che era ghiotto di piccole alborelle che si procurava ancora vive da un pescatore di Bracciano e quando apriva la porta di casa lo trovava col muso puntato sul vetro, verso la porta dove lei entrava col suo carico di vita da sbranare.
Una sera Silvia stava fissando Fred da più di un’ora quando anche lui prese a fissarla. Allora le venne d’improvviso una gran voglia di accarezzarlo, anzi le sembrò che Fred glielo stesse chiedendo. In fondo lui passava le giornate da solo, ad aspettare il suo ritorno. Certo lei trascorreva tutto il tempo libero con lui, ed aveva anche fatto qualche assenza dal lavoro per restare a casa, non poteva proprio fare più di così. Decise di fargli sentire il suo contatto ed immerse la mano nella sua acqua. Non era ormai più limpida come un tempo e la puzza dei pesci morti si era attaccata anche alle tende nonostante lei cercasse di pulire più spesso che poteva. Per un po’ Fred mostrò di gradire quel contatto e le sembrò che scivolasse sotto la sua mano come a cercare una carezza. Silvia si sporse sull’acqua; sentì forte il desiderio di abbracciarlo e quasi ad accoglierlo dentro di sé. Fu in quell’ attimo che Fred si avventò sul suo avambraccio destro. Silvia urlò e, cercando di liberarsi, crollò sull’ acquario trascinandolo a terra.
Fred le cadde addosso. Era diventato enorme e i suoi denti aguzzi iniziarono ad azzannarla sulle gambe. Silvia cercava di liberarsi dai vetri quando Fred trovò l’arteria femorale. Il sangue si mischiò all’acqua e mentre Fred agonizzava lei sentì un freddo afferrarle il corpo e il buio ricoprirle la testa. Pensò disperatamente a qualcosa che le desse calore e luce. Tutta la stanza intorno sembrò diventare liquida: pensò a Lipari, dove era andata in vacanza con Claudio due anni prima.
Avevano affittato una villa così grande che si poteva non sapere della presenza uno dell’altro anche quando si stava in casa insieme. La luce si infilava dappertutto, poco filtrata dalle tende bianche sempre sollevate da un vento che, sull’isola, pareva non placarsi mai. A volte, la notte, distesi nudi sul letto, sentivano il loro frusciare e pareva parlassero tra loro.
Il giorno del mercato si erano svegliati più presto del solito ma la piazza era già ricolma di gente, merci e sole quando arrivarono. C’erano distese di cassette accatastate di limoni, meloni spaccati e pesci argentati male allineati su banconi. Mani ruvide afferravano polpi ancora vivi per sollevarli come trofei. Stavano camminando tenendosi per mano, spintonati qua e là, quando Silvia si sentì avvolgere da un profumo irrinunciabile di lieviti caldi. Così, all’improvviso, come quando Claudio la prendeva dalle spalle per stringerla a sé. Non lo vedeva ma sapeva cosa sarebbe successo dopo.
Comprò della pizza rossa e si allontanò perché, senza alcun motivo, voleva mangiare da sola. Trovò una piazza assolata dove non c’era nessuno. Solo una chiesetta e i suoi gradini. La carta e la pizza erano così unti che gocce di olio le cadevano sulle cosce nude. Il sole riverberava sulle pareti bianche quasi accecandola.
Dovette chiudere gli occhi. Non ricordava nessun altro momento in cui si era sentita più felice.