Blu anice, verde menta

Alessandra Cella

Ogni volta che uscivo con mamma era la stessa storia. Avevo dieci anni e non mi fregava niente di fare conversazione col panettiere, col macellaio, con la sua ex compagna di scuola che aveva la rosticceria in piazza, dove neanche se c’entravi il sabato trovavi coda. Le chiacchiere sul nulla duravano minuti eterni dentro quegli spazi gelidi e pregni di odori. Quello delle patatine fritte, poi, mi si attaccava ai capelli come vinavil.
«Anche le maestre dicono che c’è un problema; a volte non risponde nemmeno alle domande», confessava mamma con un risolino soffocato. «Ah, io proprio non lo so da chi ha preso!», aggiungeva portandosi la mano davanti alla bocca per coprire i denti tracimanti di cui si vergognava. Mi obbligava a seguirla in quel tour dell’assurdo e io, per difesa, fissavo catatonica le etichette delle scatole di fagioli, le pizzette tonde e unte stipate in vetrina, gli scontrini che mi sembravano lingue strappate con forza e accartocciate dentro le tasche; intanto si susseguivano i bollettini di chi stava morendo – perché, certo, se sei sempre al bar, prima o poi ti scoppia il fegato – di chi tradiva la moglie – poi però ha una bella faccia tosta a venire a messa e prender l’ostia la domenica! – di chi rifuggiva la Chiesa – perché la gente preferisce dormire! Fissavo gli orologi storti dei negozi e a mente contavo le ore supplicando il tempo di passare più in fretta.
Quando non ce la facevo più, scappavo fuori come Picchiarello, saltavo sul sedile posteriore della macchina e dopo un po’ suonavo il clacson con foga. Mamma accennava a uscire ma puntualmente si fermava sulla porta, avvoltolata nelle tende a fili, e continuava a parlare, parlare e gesticolare, mentre io la fissavo, sfinita. A quel punto sventolava la mano in segno di saluto e, obbligata, saliva in auto, posava la busta di plastica lisa con dentro le due cose che aveva comprato e mi dava un’occhiataccia.
Non credo abbia mai capito il disagio che mi strozzava quando andava in giro sciorinando giustificazioni sul perché dalla mia bocca non uscisse un suono. Lo sguardo della gente cadeva inquisitorio sulle mie labbra, lo sentivo allargarsi a macchia fino ai piedi, trasformarmi in un essere falotico, una specie di alieno.

Povera mamma.
Adesso tocca a lei essere guardata in quel modo, immobilizzata su una sedia a ruote, con un catetere urinario e uno cardiaco; adesso tocca a lei essere senza parole, povera mamma. Adesso ho io il potere.

Era l’estate della mia laurea quando iniziò a dare i primi segni di cedimento.
La mattina della tesi aveva insistito per venire con me, «per sentire come parli bene» aveva detto con le mani giunte in preghiera e il pomo d’Adamo che fluttuava come un ascensore in corsa. Avevo gioito segretamente del fatto che si fosse limitata a sorridere al mio relatore senza proferire verbo, senza farmi venire voglia di sotterrarmi seduta stante. La canicola asfissiante di quel giorno aveva sciolto i ghiaccioli presi al bar di fronte all’università per festeggiare. Io avevo le dita colorate di blu anice, lei, invece, appiccicose di verde menta. Rideva dei giochi delle papere sul fiume.

Avevo tirato fuori dal taschino della camicia di lino il rossetto, ormai liquefatto. Me sono passato per bene sulle labbra con lo sguardo fisso avanti e il profumo di mamma nel naso, quello dolciastro del discount che usava solo nelle occasioni speciali.
Si era messa a parlare con le oche: «la prossima volta che vengo vi porto il pane secco eh, così diventiamo amiche», ciarlava sporgendo il petto come a volerle toccare.
Chiusi decisa il tappo del rossetto che scivolò via e cadde a terra. Mamma si girò di scatto, portò il dito indice sul naso e, corrugando le sopracciglia, esclamò: «Zitta! Che così le spaventi e non mi parlano più!». Poi puntò dritto verso l’acqua con passo ieratico. Ci misi un attimo a realizzare, ma la bloccai afferrandola per un polso e quando si voltò notai che la sua bocca si era spostata. Come se non potesse più sostenere le labbra. Come se volesse fare il verso alle anatre.

Povera mamma.
Adesso che tocca a lei, di tanto in tanto la porto a vedere le sue amiche. Ogni volta è un
viaggio faticosissimo. Le metto il rossetto sulla bocca storta. Poi faccio un passo indietro e la osservo, reclinando il collo come quando mi fisso davanti a un quadro. Quello che vedo non mi piace, allontano la carrozza, tiro i freni e mi incammino verso il fiume. Sento gli
occhi di mamma trafiggermi la schiena. Sono pieni di vergogna lo so, ma lei non lo può dire.
Nessuna parola. Prendo il pane secco dalla tasca della giacca e lo lancio alle anatre.
Senza fare rumore.

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