Monir

Giusi Sardella

Ci sono le mattine che sanno di lavanda. Altre sanno di granite al mare. 
Alcune sono fredde che senti le ossa e quasi potresti contarle, altre calde come il respiro di tua madre sulla fronte.
Così si diceva Monir mentre correva sulla bicicletta verso il campus e quel giorno sapeva di fresia.  Ne era sicuro. Le fresie gialle che sbocciano a gennaio anche se di notte ancora gela. Le fresie impertinenti che ti sbattono sul naso il profumo di primavera inoltrata e nelle gambe la voglia di correre sui prati, immagini verdi e lucenti, ma ancora sotto la neve, a valle delle montagne dell’Atlante, sopra Ifrane. 

“Ho studiato duro ma ci sono riuscito, non ho sbagliato nessun quesito”, si confortava Monir. Anche Sebastian, il vecchio e malandato professore dove sua madre andava a servizio, glielo aveva ripetuto, quando, dopo il test di ammissione, era corso per cercare conferme.
“Si, ho fatto tutto bene. Tutto come andava fatto”, si ripeteva.
Girò l’angolo della bottega di Gongi, il venditore di tajin. A quell’ora già friggeva verdure. Si fermò per prendersi un pezzo di khebez e un po’ di fiato. Il vecchio ascoltava alla radio, tutto eccitato, le notizie del muro di Berlino che nella notte era venuto giù. Quando Monir riprese la bici, Gongi alzò il mestolo che gocciolava olio, come una bandiera per salutarlo. Un odore di coriandolo e menta colorò l’aria.
Monir puntò dritto fra i filari quasi rosa sui piccoli mucchi di neve bianca del viale. Immaginò il sorbetto alla pesca che Fatima gli avrebbe offerto mentre lui si riposava, nel suo studio di avvocato, fra un cliente e un altro. Passò pedalando con un leggero ansimare il ponte, sul piccolo lago azzurro pallido e calmo. Le ruote filavano lisce sotto la spinta delle gambe.
Attento, fra l’andirivieni di studenti e biciclette che si era fatto più fitto, in prossimità dell’università di Ifrane, guardò verso l’edificio degli esami. A duecento metri, su tabelle affisse, c’era già scritto, su una riga orizzontale, il suo destino. Solo cento ammessi alla facoltà di legge. Ma solo dieci con la borsa di studio senza la quale non aveva nessuna possibilità di studiare.   

Posò la bici al muro di fronte e si avvicinò al gruppo di ragazzi accalcati sulla parete. Il cuore gli batteva forte, ma fra le voci eccitate non lo sentiva. Sua madre aveva fatto un sogno bellissimo la notte precedente e Monir credeva ai sogni di sua madre. Si fece strada a fatica per raggiungere i pannelli dei risultati. Era come stordito. Vide rapidamente i primi dieci nomi. Capì solo che il suo non c’era e si allontanò di scatto. Tornò alla bicicletta e notò che la catena era allentata. Presto si sarebbe rotta. Salì in sella per tornare a casa. 

Sul lago galleggiavano dei vecchi tronchi marciti. Sarebbe passato prima alla segheria di cedri dove cercavano sempre operai, si disse. Altro non pensava più Monir e neanche gli pareva di sentire nulla mentre pedalava sul viale. La neve sciolta formava del fango scuro che schizzava sui calzoni celesti. 
“Monir! Monir!”, qualcuno urlava il suo nome. Non voleva fermarsi.
“Monir. Accidenti, ma sei diventato sordo?” 
Un ragazzo gli si parò davanti, costringendolo a fermarsi. Era Mohamed.
“Monir hai visto i risultati?”, quasi gli urlò.
“Ciao”, mormorò Monir, “come ti è andata?”
“Ma lo sai che il mio nome era proprio l’ultimo? Che cialtroni! Neppure la fatica di metterli in ordine alfabetico”, Mohamed rideva di gusto. 
“Comunque, novantacinquesimo! Grande, no? Di poco ma sono entrato. È questo che conta!”
Non ci aveva pensato. Possibile che la paura gli avesse tirato quel colpo?
La graduatoria non era in ordine di ammissione, realizzò in un attimo.

Il cielo sopra Ifrane era limpido. Era una bella giornata e prima di tornare ai pannelli delle ammissioni poteva fare un giro nel bosco di cedri e respirare l’odore dei tronchi tagliati di fresco. Poi sarebbe risalito verso il fiume e avrebbe pensato alla grande casa di legno col patio, davanti alle cascate, che avrebbe comprato. E solo dopo sarebbe ridisceso al campus a controllare il suo nome. 
Sorrise. Sua madre aveva fatto un sogno bellissimo e Monir credeva nei sogni di sua madre.

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