Prendete un elettricista onesto. Uno con gli studi e l’esperienza del caso, una comprovata abilità pratica, una clientela numerosa e soddisfatta.
Prendete uno come lui, 47 anni, maschio, bianco, un Mario Rossi, un uomo nel pieno delle forze mentali e fisiche, con la consapevolezza delle proprie capacità, un professionista stimato, talentuoso, affermato, benvoluto, uno che ha trovato la sua nicchia di mondo nella quale realizzarsi.
Prendetelo e trasportatelo fuori dal suo fortino di gesti esperti e precisi, di diagnosi esatte, di riparazioni meticolose, di progettazioni accurate, di interventi rapidi e risolutivi. Anni e anni di lavoro al massimo livello.
Prendetelo e strappategli di mano la cassetta degli attrezzi, la scala retrattile, il cacciavite cercafase, il nastro isolante, i mammuth, le matasse di fili, le scarpe antinfortunistiche, la pinza sbuccia fili, il voltmetro. Toglietegli anche la salopette blu, la maglia di lana cardata in inverno e la t-shirt del “Ristorante Il Tubone” in estate.
Rivestitelo con una maglietta di cotone verde con lo scollo a V, un paio di pantaloni con l’elastico, comodi, verdi anch’essi, e mettetegli sopra un camice bianco, una targhetta sul taschino e dentro due o tre penne infilate per metà.
Dategli anche un paio di occhiali, bifocali, con un cordino giallo che li assicura al collo, diciamo un paio con una simpatica e anticonformista montatura azzurra, una bizzarria che fa un po’ “genio e sregolatezza”; la troppa semplicità, si sa, ispira scarsa considerazione.
Ai piedi fategli calzare un paio di zoccoli anatomici, di plastica, con la fascia superiore di pelle bianca e traforata. Mettetegli infine uno stetoscopio al collo, una cartelletta in mano con una diagnosi clinica pinzata sul lato superiore.
Guardatelo mentre vi scruta, vi fa domande, sornione, ora altero, ora alla mano, sorridente; si tuffa con classe nell’anamnesi, parlandovi da una distanza siderale, dal suo piedistallo ippocratico, nel controluce misterioso che dona la scienza, in quell’alone stregonesco che riveste chi conosce i misteri del corpo. Sbuffa, storce gli occhi, arriccia il naso, sfoglia le analisi, sospira, aggrotta la fronte, imposta la voce.
Che bravo, ha già imparato tutte le posture, lui esperto solo di circuiti elettrici e amperaggio, trasformatori e differenziali.
D’altronde, voi lo avete eletto a vostro chirurgo, per quella regola della maggioranza che decide i destini, della democrazia, del supremo valore dell’eguaglianza. E in fondo perché no?
Basta coi vecchi baroni, avete detto, vaffa ai professionisti della sala operatoria, a tutti quelli che hanno passato la vita ad ammuffire dentro lo studio, poveracci che non sanno nulla degli intrighi di Carlo e Camilla, della sofferenza di Harry, di Sanremo, della vita VERA, dei pannolini, degli asili, del prezzo del pane, delle lavatrici che si fulminano, dei condizionatori che vanno a farsi benedire, dei cancelli elettrici che si mangiano le schede. Viva gli elettricisti, avete gridato, gente VERA, gente come noi.
D’altra parte se un comico può dirigere le finanze, un avvocato la cultura, una casalinga l’economia, un ex presentatore la giustizia, un’attrice l’istruzione, una pornostar il turismo, un barista l’agricoltura, perché mai un elettricista non potrebbe operarvi d’ernia?
Così avete scelto, il dado è tratto, la maggioranza ha parlato, la volontà del popolo ha ruggito la sentenza e ha eletto l’uomo che di voi si prenderà cura.
E se avete un dubbio sul tavolo operatorio mentre il novello Professore chiede il nastro isolante per ricollegarvi le arterie, ormati siete in ballo.
Dovete ballare.