Pane e formaggio

Serena Ganzarolli

Non lo nego; sono ricoverato in un manicomio; il mio infermiere mi osserva di continuo, quasi non mi toglie gli occhi di dosso; mi scruta anche dietro lo spioncino della porta, ma il suo sguardo non può penetrarmi poiché egli ha gli occhi bruni, mentre i miei sono celesti.

Anche mio nonno ha gli occhi celesti. Operaio in pensione, mi preparava pane e formaggio a merenda. Riscaldava le fette di pane su una vecchia padella di ghisa, quel tanto che bastava a far squagliare il formaggio. Mi scottavo sempre la lingua, ma se aspettavo il panino diventava duro come un sasso. Ho mangiato pane e formaggio fino a quella sera, quando ho trovato il mio zaino e una valigia blu scuro fuori dal cancello di casa. Dentro, le mie cose piegate con ordine. Gli avevano detto che mi baciavo con Gabri, che aveva diciotto anni, la macchina e una fidanzata. Credevamo di esserci nascosti bene nell’auto parcheggiata sulla strada sterrata tra i campi di colza in fiore. Lì non passava mai nessuno, ma nel paese era impossibile avere un segreto. Capii che non avrei piu rivisto il nonno.

Il vecchio pastore tedesco Azul mi seguì con il suo sguardo spento mentre mi allontanavo. A sedici anni mi sentivo stanco come lui, custodivo troppi segreti nel cuore.
Fu così che andai al manicomio, lo zaino sulle spalle e i manici di cuoio della valigia stretti tra le mani. Attraversai il paese deserto, illuminato solo da qualche lampione. Raggiunsi la piazza e presi la via che portava al cimitero. Lo superai a passo svelto. Lì, dove il paese finiva, le case lasciavano il posto agli ampi prati di erba secca fino al decadente edificio giallo.

Era rimasto lì, coi suoi due piani solitari, senza uno scopo e l’intonaco a pezzi. Ci aveva provato, a esser qualcosa: una biblioteca, un museo, l’archivio comunale. Ma una maledizione gli impediva di lasciarsi alle spalle il passato ed era tornato a essere solo uno stabile deserto.
La chiamavano la casa dei matti. Non volevano che ci andassimo. Ma noi, ogni mercoledì pomeriggio, scappavamo dal catechismo e raggiungevamo l’edificio in bicicletta.

Varcai la soglia del portone di legno e mi diressi verso la stanza che conoscevo bene. La seconda sulla destra. La luce smorta del telefono bucò il buio illuminando la desolazione all’interno. Il locale dalla pianta quadrata mi sembrò più piccolo e squallido di quello che ricordavo. Il forte odore di muffa e polvere mi invase le narici, il gelo e l’umidita mi scivolarono sotto al maglione e si arrampicarono sulla schiena, stringendomi la gola in una morsa. Mi sedetti accanto alla porta di ferro, sulle piastrelle scheggiate ricoperte di terra che il vento, negli anni, aveva portato dentro. Frugai nelle tasche del giubbotto e trovai le cuffie. Me le infilai nelle orecchie, alzai al massimo il volume della musica. La voce di Kurt Cobain calmò il mio respiro.

In the pines, in the pines, where the sun don’t ever shine, I would shiver the whole night through.

Ho sentito il chiavistello muoversi e chiudersi con uno scatto. L’unica luce nella stanza e il sole smorto che passa tra le sbarre della finestrella in alto. Ho riconosciuto il suo occhio allo spioncino. Mi ha seguito e ora vuole uccidermi. Vuole eliminare la checca che lo ha incasinato con i genitori e la fidanzata, minato il futuro da calciatore. Sbatto i pugni contro la porta di ferro, urlo aiuto fino a restare senza voce. Grido il nome del nonno con tutto il fiato che ho in corpo fino a quando non scende il buio, e poi ancora quando la luna piena invade di luce bianca la stanza. Immobile, fuori dalla camera, mi osserva. Esausto e perplesso, mi siedo sul pavimento impolverato. Chissa se gli manca il coraggio o se l’ostacolo e il mio corpo di cui non sa come liberarsi. Uccidere una persona non è facile.

Apre la porta per poggiare a terra una scatola con un tramezzino al tonno ed esce. Scorgo l’occhio sinistro scrutare ogni mio movimento. Non urlo, non mi lamento, non faccio rumore. Osservo la luce smorta di marzo e il pezzetto di cielo fuori dalla finestra. Sto tormentando un ragno dalle lunghe zampe, quando Gabri entra di nuovo. Sembra più piccolo e feroce ora, l’attesa gli ha deturpato i lineamenti gentili. Mi getto sul cibo avvolto nella carta stagnola che lancia sullo strato di polvere del pavimento. Rimane in piedi, immobile in mezzo alla stanza a guardarmi scartare il pane con il formaggio ormai freddo e rappreso, duro come un sasso. Fisso rapito gli occhi bruni del mio amore.

Non sorride.

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