Negli anni più vulnerabili della giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente. «Quando ti vien voglia di criticare qualcuno» mi disse «criticalo aspramente e sii severo perché solo in quel modo potrà capire quali sono i confini della tua persona».
Insomma, le mie critiche, anche le più aspre, sarebbero servite al mio interlocutore per fargli capire che ero pronto a tutto. Egli, da parte sua, non avrebbe avuto problemi a ribattere a viso aperto e nel pieno della sua sincerità. Mio padre era un tipo diretto, senza fronzoli. Non si perdeva in cerimonie o giustificazioni. In casa dava ordini come un generale alla guida di un plotone e io e mio fratello obbedivamo senza mai fiatare. La sola minaccia delle sue punizioni bastava a spegnere ogni nostro entusiasmo di ribellione adolescenziale. Nostra madre, a poco a poco, smise di parlare; sentivamo la sua voce solo quando ci chiamava a tavola per la cena e per ricordarci di recitare le preghiere prima di coricarci.
Fu un pomeriggio al ritorno da scuola che trovammo la casa a soqquadro. Mamma non c’era e mio padre girava per le stanze cercando qualcosa che non si poteva trovare, ma questo lo capimmo solo qualche tempo dopo.
Negli anni seguenti, io e mio fratello ci separammo. Io, il più piccolo, iniziai le scuole superiori quando lui finiva il corso di studi all’accademia militare e, tutto sommato, passo’ del tempo prima della sera in cui ci trovammo di nuovo a casa dei nostri genitori. Erano invecchiati entrambi, certo, ma gli anni di mia madre sembravano pesare il triplo rispetto a quelli di mio padre.
Ora la situazione era ribaltata, lui seduto sulla sedia a rotelle non turbinava più per casa. Si lasciava trasportare senza fiatare, il viso sempre eretto verso l’alto come un busto mussoliniano. Si vedeva che dentro ribolliva di furore, ma solo una schiuma opaca di saliva gli usciva dagli angoli della bocca. Lei continuava a prepararci il pranzo ogni volta che andavamo a trovarli. Lo faceva perché era abituata; si muoveva più lenta di quando eravamo ragazzi, ma non voleva ci alzassimo dalle sedie per nessun motivo. A tavola più che parlare si rispondeva alle domande di nostra madre. Questioni vuote e di nessun interesse che servivano solo per nascondere i grugniti di nostro padre che cercava di intervenire per criticarci aspramente. Noi rispondevamo guardandolo negli occhi.
«Devi farti curare. Guarda come ti sei ridotto, guarda come hai ridotto mamma» diceva mio fratello.
Mio padre ruggiva in silenzio, sbavava e gonfiava le vene del collo cacciando colpi di tosse come cannonate.
Mamma gli asciugava la bocca.
Io non avevo nulla da dire, vedevo i suoi confini ridursi e non volevo attaccare.