«Perché non fondiamo una squadra di pallavolo?». La proposta di Luca, detto il Topo, ha un effetto immediato: O’Rei, Handre, Pove, Occhiali sono pervasi dall’entusiasmo, io dall’ansia, la stessa dei compagni dello studente assente il giorno della sua interrogazione programmata.
Che avessi scarsa attitudine per lo sport si era capito alle scuole elementari, quando la maestra annunciava: «Oggi facciamo le capriole». Mani a terra, testa piantata sul tappeto e slancio delle gambe in aria, la mia interpretazione somigliava più a un palo di legno conficcato nella laguna di Venezia.
«Tira, che hai un destro che spacca le pietre!», mi incitava il professore al liceo: per fortuna, nelle ore di educazione fisica giocavamo spesso a calcio.
«Ma l’idea del cineforum?» provo a obiettare. «La abbandoniamo?».
Come risposta ricevo risate di scherno: il Topo si sente Massimo Decimo e gli altri i suoi gladiatori, già proiettati verso le arene dei palazzetti dello sport e la gloria.
Fra una lezione universitaria e l’altra, O’Rei individua un’associazione dilettantistica. «Piri, cos’hai deciso?», mi chiede ancora una volta.
Non posso più tergiversare, ma il soccorso giunge dal regolamento del volley amatoriale: ogni squadra deve avere un dirigente accompagnatore. Ecco un ruolo adatto alle mie doti diplomatiche, sono pronto ad affrontare mansioni di responsabilità. Durante le partite in casa aggiorno il punteggio sul tabellone, in trasferta motivo i panchinari.
Una sera di metà novembre siamo impegnati in una sfida a Carmagnola. Da un dedalo di stradine di campagna finalmente affiorano le luci della palestra, avvolte nella nebbia. L’odore del parquet ci investe, gli atleti vanno a cambiarsi e la gara ha inizio. Il rumore delle suole che scivolano sul pavimento si fa largo in mezzo alle grida di incitamento del pubblico.
Salvataggi e bagher in difesa non bastano, gli avversari sono troppo forti. È sconfitta.
Le squadre rientrano negli spogliatoi, in palestra restiamo io, qualche tifoso, una biondina che smonta la rete a metà campo, un ragazzo che si esercita nelle battute. Mentre sgranocchio dei crackers, verso di me rimbalza un pallone, irresistibile. Mi coordino per un tiro al volo e calcio, con il piede sinistro. L’impatto con la sfera risuona come un colpo di tamburo: perfetto. Parte una staffilata, gli inserti gialli e fucsia del cuoio disegnano una parabola tesa, che va a spegnersi sul profilo destro della ragazza piazzata al centro della palestra. Magrolina, capelli a caschetto, gli occhiali le volano via dal naso e il contraccolpo la scaraventa al suolo. Tutti ci precipitiamo a soccorrerla. È cosciente ma intontita, sente dolore, si lamenta. La guancia color vinaccia somiglia a un roast beef poco cotto e, impressa vicino all’orecchio, mi sembra di leggere la marca del pallone.
Attirati dal trambusto, i giocatori escono dagli spogliatoi e ci raggiungono. Qualcuno porta del ghiaccio secco, lei si alza, comincia a riprendersi dalla botta e dallo spavento. Si scopre che è la fidanzata di uno degli avversari, quello alto un metro e novanta, le spalle come ante di un mobile quattro stagioni. Gli raccontano l’accaduto. Io mi sto scusando da dieci minuti, ho esaurito le parole di rammarico e, costernato, raccolgo da terra gli occhiali della malcapitata. Mentre glieli porgo, l’armadio si avvicina, con un gesto lento posa la borsa e mi guarda. Deglutisco e riaffiora il salato dei crackers. Lui mi fissa in silenzio.
Poi abbraccia la ragazza e la accompagna verso i bagni, seguito da una piccola folla. Noi abbozziamo un saluto e, con passi sempre più svelti, usciamo.
In auto mi arriva una sberla sulla nuca. Scoppiamo a ridere. E se avessi colpito di destro?