Le vecchie dimore hanno un’anima, si sente spesso dire. Su Anima, l’arca in cui gli oggetti prendono vita, le vecchie dimore avevano più che altro la tendenza a sviluppare un carattere orribile. L’Archivio di famiglia, per esempio, era sempre di malumore. Per esprimere il suo malcontento non faceva che scricchiolare, cigolare, sgocciolare e sbuffare. Non gli piacevano le correnti d’aria che d’estate facevano sbattere le porte chiuse male. Non gli piacevano le piogge che d’ autunno gli tappavano le grondaie. Non gli piaceva l’umidità che d’inverno penetrava nei muri.
Bill lo sapeva bene e stava attento a non urtare la sensibilità dell’Archivio di famiglia che tendeva a ricambiare ogni mancanza di rispetto spostando documenti, libri e incarti. A volte arrivava persino a cambiare i volti nelle foto e il lavoro per tenere tutto in ordine diventava molto faticoso.
Bill era paziente e sopportava ogni malumore sforzandosi di non farlo innervosire. Ma all’inizio di un inverno, senza motivi apparenti, l’umore dell’Archivio di Famiglia peggiorò e divenne quasi impossibile tenere gli scaffali sistemati. Bill decise di prolungare le sue mansioni oltre l’orario consentito per catalogare materiali di cui a volte ignorava l’esistenza e che saltavano fuori nei posti sbagliati. Tutto l’edificio sembrava traballare, spesso persino sobbalzare come a liberarsi di un fastidio nascosto.
Poi, di colpo, anche i classificatori più pesanti presero a cadere liberando il loro contenuto, così che Bill era costretto a ricomporli. Eppure non si lamentava, perché teneva molto a quel lavoro. Si poteva ben dire che fosse per lui più importante di ogni altra cosa al mondo.
Quando non era al suo tavolo di legno, immerso nell’odore dell’Archivio di famiglia, tutto pareva perdere significato. Se le persone gli parlavano rispondeva come capitava, tanto per cortesia perché Bill era molto ben educato e non avrebbe mai ferito nessuno mostrando del disinteresse. Ma l’Archivio prendeva ogni sua energia e ormai capiva da sé di apparire molto distaccato, talora quasi assente, perché le conversazioni non lo interessavano come un tempo e spesso era talmente distratto che neppure ne capiva il senso.
Un giorno, arrivando al lavoro, gli parve di trovare l’Archivio visibilmente contrariato. Le travi sul soffitto vibravano violente ed era tutto uno scricchiolare di legni e di mattoni. Pensò che fosse per colpa delle finestre rimaste spalancate. Capitava che l’addetto alle pulizie dimenticasse di chiuderle dopo aver lavato il pavimento. Un forte vento agitava le tende bianche e le pagine dei libri, volati a terra, scorrevano impazzite.
Certo, si disse Bill, l’edificio aveva ragione ad essere adirato. Avrebbe ripreso l’addetto, sempre con misura, ovviamente, ma stavolta si sarebbe fatto sentire.
Richiuse ogni persiana e sistemò le tende. Poi si chinò a raccogliere i libri e gli parve che l’edificio si calmasse. Finché sarò qui, si disse, l’Archivio può star tranquillo che me ne prenderò cura.
Mise un cartello fuori che le visite erano sospese a data da destinarsi e per giorni rimase chiuso dentro, cercando di rimettere tutto al suo posto. Ma una mattina, che si era proprio in pieno inverno, accadde un fatto molto strano. Bill stava sistemando i volumi dei matrimoni, quando si accorse che tutto uno scaffale era vuoto. E pure quello accanto. Guardò subito la fila dopo e quella sotto ma tutte mostravano solo ragnatele e polvere. Vecchia e sottile.
Si sentì venir meno. Voltandosi vide le pareti, zeppe di carte e copertine rilegate e un po’ sdrucite, che scomparivano a poco a poco. Dovette sorreggersi al tavolo, smarrito. Quale sortilegio, quale magia oscura si stava impossessando del suo Archivio di famiglia? Cosa sarebbe stato della sua vita senza il suo lavoro, senza i suoi libri, nella stanza priva di ogni segno del passato? Era peggio che morire.
Le gambe gli cedettero per l’angoscia e cadde in ginocchio. Raccolse la testa fra le mani e rimase così per alcuni minuti, forse per mesi. Bill non riuscì a capirlo. Poi un raggio di sole, potente e improvviso, illuminò la stanza, la finestra con le tende bianche e il nome della medicina, aloperidolo, sopra al comodino, di fianco al suo letto.
Una coscienza dolorosa prese a farsi strada nella mente. Ricordò sua madre, come lui nel letto, gli occhi persi nell’assenza di sé e dei ricordi, nell’angoscia di un’allucinazione.
Forse gli restava solo un attimo e non lo voleva perdere.
Era un uomo gentile, questo non lo dimenticava. Non ancora.
Disse grazie all’infermiera che lo guardò. Stupita.