Il colibrì di S. Veronesi

Paolo Saracco

Il quartiere Trieste di Roma è, si può ben dire, un centro di questa storia dai molti centri. È un quartiere che ha sempre oscillato tra l’eleganza e la decadenza, tra il lusso e la mediocrità, tra il privilegio e l’ordinarietà, e per adesso tanto basti: inutile descriverlo oltre, perché una sua descrizione potrebbe risultare noiosa, all’inizio della storia, addirittura controproducente. Del resto, la migliore descrizione che si può dare di qualunque posto è raccontare cosa vi succede, e qui sta per succedere qualcosa di importante.

Il campanello suona e Rosa va ad aprire la porta. È Andrea. Due baci sulle guance, come sempre, poi si spostano in cucina. Andrea saluta Luigi e si siede al tavolo, di fronte a lui. «Papà, stavolta la patente non te la rinnovano. Senza occhiali un’altra visita non la superi». Andrea glielo dice parlando forte. Magari ha paura che, oltre a perdere la vista, il padre sia diventato pure sordo. Ma a Rosa e Luigi la macchina serve per andare a trovare Fulvio, il figlio maggiore. Ha bisogno di cure speciali e l’unico posto in grado di offrirgliele si trova a Castel Romano, a cinquanta chilometri da casa. È entrato in clinica sedici anni prima e, da allora, Luigi e Rosa fanno cento chilometri per andare da lui. Tutti i giorni, tutto l’anno.

«Hai ottantasette anni, papà. Da Fulvio vi accompagnerò io, al sabato».

Andrea si interrompe un istante. «Le cose cambiano. Diglielo anche tu, mamma», aggiunge mentre si volta verso la madre.

Rosa è rimasta in piedi, dice solo: «Luigi».

Suo marito ha sempre avuto una memoria di ferro. Manca un mese alla scadenza della patente. Il problema è serio, anche perché di occhiali non vuole saperne. Dopo l’intervento alla cataratta ha conservato 1,75 decimi, a suo giudizio più che sufficienti per continuare a guidare. Si gratta il mento, fissa a lungo Andrea e poi risponde: «Già».

Nei giorni successivi Luigi non sta in casa come al solito; è sempre in giro per il quartiere. Anche al bar gli chiedono se è tutto a posto. Nelle sue passeggiate arriva fino a Parco Virgiliano e, lungo via Nemorense, nota un ammasso di motorini parcheggiati davanti a una scuola guida. Comincia ad andarci spesso e una volta, mentre è lì, vede alcuni ragazzi guardare i telefonini. Gli viene un’idea. Vecchio, sì; mezzo orbo, può darsi; smemorato, neanche per sogno. Prende il telefono e si fa aiutare a fotografare il tabellone per l’esame della vista. Poi va in biblioteca. Gli danno un cavo e gli parlano della presa uesse. Fa per attaccare il telefono alla corrente, lo fermano e gli mostrano un buchetto nella stampante che si adatta al cavo. Sorridono, gentili. Stampano la foto del tabellone, bella grande. Poi Luigi impara a memoria tutte le lettere, una fila per volta.

Il mese passa, è sabato. Andrea è arrivato a casa dei genitori per accompagnarli da Fulvio.

Mentre il figlio prende le chiavi dell’auto, Luigi posa sul tavolo la sua patente nuova.

Rosa lo guarda. Sorride, con gli occhi lucidi.

Andrea fissa la tesserina e alza la testa verso il padre: «Mi dici…».

«Niente, risponde lui, «quindici giorni fa ho fatto la visita. È andata bene».

Luigi apre il giornale. «Rosa», aggiunge mentre si siede, «domani partiamo prima. Cominciano i lavori sulla statale, ci sarà traffico».

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