Due ombre scure si allungano sotto i miei occhi; sono solchi scavati durante le interminabili notti passate insonni. Del resto, come posso dormire sapendo che il mostro è sempre lì, in agguato, pronto a sferrare l’attacco finale per mangiarmi in un sol boccone? Di occhi profondi, ne ha tanti quanto bastano a scrutare ogni minimo difetto, a confrontare ogni singola cellula del mio corpo con la forma ideale, perfetta, prestabilita che dovrebbe assumere. Anche le orecchie, ampie come radar, abbondano, captando ogni singola vibrazione che esce dalla mia bocca; poi, scompone le frequenze emesse e le rimescola a suo piacimento. Mille bocche con labbra sottili, denti storti e canini aguzzi, parlano all’unisono correggendo ogni mio passo, fatto o presunto non ha importanza; quelle voci non si chetano un attimo, né di giorno né di notte.
Allora provo a tapparmi occhi, bocca e orecchie, cercando rifugio nel sonno. E invece, è proprio nei sogni dove colpisce con più ferocia, senza pietà: è libero di assumere tutte le forme che vuole, di plasmare la mia figura nei modi più assurdi e perfino di far cadere ogni appiglio che, da sveglio, cerco nella realtà.
Eccolo, ora lo vedo chiaramente: è lì e anche lì e lì; sopra, sotto, davanti, dietro di me. Corro via, provo a sfuggire da tutte quelle mani sottili e scheletriche, le cui dita si allungano ad ogni passo che faccio; vorrebbero catturarmi, legarmi e farmi muovere come una marionetta. Le forze mi abbandonano, i muscoli carichi di acido lattico sono pietrificati e i polmoni in debito d’ossigeno. Gli abiti madidi di sudore mi stanno appiccicati come una seconda pelle. Mi devo fermare. Proprio qui, a pochi centimetri dal mostro. Se ne sta quieto come una bestia sazia, ma consapevole che le prede saranno sempre abbondanti e facilmente disponibili.
Nonostante la mia vista sia persa in un buio denso e le mie gambe stiano tremando come foglie scacciate dal vento, mi faccio coraggio e mi avvicino in punta di piedi. Sono attratto dallo scintillio che zampilla da tutti i pori; schegge di vetro riflettono fili di luce creando una ragnatela senza inizio e senza fine. Sento il sangue raggelare quando vedo la mia immagine riflessa in uno di quegli specchi: sono proprio io, lì, dentro il mostro e lui è dentro di me; vedo la mia ombra che rimbalza da una parte all’altra, preda e predatrice, insieme a quegli infiniti spettri senza contorni che si inseguono senza sosta. Indosso la stessa maschera che hanno loro, sono irriconoscibile con quegli occhi vitrei con i quali li scruto, con quelle orecchie appuntite con le quali sento il loro respiro affannato e quella bocca dalla quale sibila una lingua biforcuta. Tremo e rabbrividisco, vorrei scappare ancora ma non c’è nessun luogo dove andare, nient’altro infatti esiste al di fuori del mostro.
Sono anch’io un altro, sono anch’io un mostro sconosciuto per qualcun altro, faccio parte come loro di questo mostro qui.
Sarebbe quasi consolante se fosse solo questa la verità. A ben vedere, sullo specchio striscia una sagoma frammentata che non riconosco. Non una, ma una miriade di me: il me-dormiente, il me-figlio, il me-fratello, il me-amico, il me-amante; e ancora, i mille me del passato che si fondono l’un l’altro in una nebbia grigia. E se fisso quel punto preciso della ragnatela per qualche secondo in più, scorgo degli sconosciuti intrappolati in bozzoli che si dimenano per liberarsi: vogliono diventare i me-futuri. Forse è questo che mi toglie il sonno, l’essere altro rispetto a me-stesso; peggio, essere quel vuoto che unisce i diversi me facendo finta che siano una persona sola.
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