Cookies

Stefano Corradini

I biscotti danesi, meglio noti alle cronache con il nome di Butter Cookies.
Oltre a sciogliersi in bocca dal tanto butter che contenevano, avevano una particolarità: la confezione. Il packaging, come si direbbe oggi, era una scatola di metallo. Conteneva i cookies ben disposti in due piani, in mucchietti di quattro pezzi dentro dei pratici contenitori di carta plissettata. La scatola aveva un valore morale perché, una volta finiti i biscotti, iniziava la sua second life trasformandosi in uno scrigno dove le madri più accorte cacciavano dentro tutta l’accessoristica necessaria per rammendare. Fili di ogni colore, rocchetti, aghi di varie misure e alcuni ditali ottonati. I cookies non erano il vero motivo per cui i genitori acquistavano la confezione nei ripiani più alti dei supermercati. No, quello era un pretesto. Lo facevano per farti credere di essere importante e che ci tenevano al tuo sostentamento ma a loro interessava solo la scatola di metallo con il pratico coperchio.

Oggi a distanza di anni ritrovo quella parola. Ogni giorno decine di volte. Quei maledetti pop-up spuntano all’inizio di ogni navigazione nel mare magnum del web. I cookies sanno che io voglio indagare nei loro siti, nei loro contenitori e mi interrogano. Mi chiedono se sono disposto ad accettare supinamente tutto. Tutto cosa? Non importa. Anche ai cookies non importa nulla della mia crescita personale. Loro vogliono che accetti tutto e subito. A dire il vero potrei avventurarmi all’interno delle opzioni e scegliere quali accettare. Ne avrei la facoltà e il diritto ma fin dai tempi della scatola di Butter Cookies l’obbligo dei miei genitori era chiaro: si mangiano tutti e non si inizia il piano inferiore senza aver finito prima quelli del piano superiore. Un ricatto allora come oggi.

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