Non vi mette ansia pensare che ogni singola scelta che fate influisce sulla vostra vita?
Anche la più banale, tipo bere il caffè in un bar al banco o seduti al tavolino, comprare il gelato surgelato del supermercato o quello fresco della gelateria, fare benzina al primo benzinaio o a quello successivo. Ad esempio, se quella volta in Messico io e la Ceci non fossimo andate a trovare il suo amico José a Veracruz non avremmo conosciuto la maestra Silvia e il Dottor Pedro.
Ma andiamo con ordine.
«Dai, io prendo il ceviche».
«Ma sei sicura? Siamo in Messico…».
«Ma siamo sul mare e poi José dice che qui è sicuro, è tutto fresco». «Ok, mi fido. Prendo anch’io il pesce, ma cotto».
Il giorno successivo siamo su un autobus verso Valladolid, stiamo andando a vedere il famoso sito Maya di Chichén Itzá. La Ceci si lamenta per la nausea; per non sentirla fingo di dormire. In realtà, sto immaginando il peggiore degli scenari. Sono emetofobica, ho la fobia del vomito e non vomito da quando ho sette anni. Peggio degli alcolisti anonimi.
A un tratto la vedo, si alza di scatto e si dirige verso il bagno del nostro autobus di linea. Ecco, ci siamo. La Ceci è pallida, sbattuta, ancora più magra di quando è partita. Ha perso almeno sette chili da quando si è mollata con il fidanzato. Anch’io mi sono lasciata col fidanzato, ma ho perso meno chili. Il Messico doveva essere la nostra vacanza per ritrovare spensieratezza e divertirci. E invece la Ceci vomita. Arriviamo a Valladolid e non riesce a smettere. Vomita nei bagni pubblici, nel bagno della reception, in quello della camera mentre l’inserviente ci dà la password del wi-fi. Io ho solo qualche problema intestinale e un po’ di febbre, nulla in confronto a lei. Vado in farmacia a comprare le pastiglie anti vomito (che la Ceci vomita dopo un minuto), chiamo l’assicurazione per avere un medico a domicilio (ma ci dicono che a Valladolid non ci sono medici disponibili), finché alle otto di sera decido che ha bisogno di una flebo. Alla reception spiego la situazione nel mio spagnolo italianizzato, chiedo dell’ospedale più vicino sentendomi rispondere che è chiuso, mi incazzo.
Finché un’anziana signora dall’aria gentile che si trova in hotel per qualche motivo che non ho mai capito, mi chiede se ho bisogno di aiuto. Sì, ho bisogno di un medico per la mia amica che non si regge in piedi. «Ay linda, no hay médicos aquί, pero puedo llamar al marido de mi hija que es médico.» Il marito della figlia è medico, perfetto. Può aprire l’ambulatorio solo per noi, fantastico. «Chiedete del Dottor Pedro, dite che vi manda la maestra Silvia». La amo già.
Carico la Ceci su un taxi e in cinque minuti siamo dal Dottor Pedro. Un uomo sulla quarantina, curato, dall’aria discreta. Emana un certo fascino, sarà perché intravedo nel suo sguardo la fine del mio peggior incubo. Ci accoglie con un sorriso e ci chiede che problema abbiamo. Tanti! ci sarebbe da rispondere. Mi limito a descrivere la situazione della Ceci, sottolineando che lei sta decisamente peggio di me. La invita ad accomodarsi sul lettino, le farà una flebo con un anti-vomito.
Io la prendo in giro, le scatto qualche foto mentre è sdraiata con la flebo. Vedo la fine di questa giornata. Mi siedo e finalmente mi rilasso. A un tratto mi gira la testa, la vista è offuscata, sento un forte senso di nausea e in pochi secondi svengo. Sulla sedia, collo all’indietro. Mi risveglio con le pacche del Dottor Pedro. Colpo di scena. Ora quella che sta peggio sono io. C’è un solo lettino, il Dottor Pedro è confuso.
Ma perché ho risposto a mia suocera? Non me ne potevo restare sul divano a guardare Amigos de Marìa de Fillippis? E soprattutto, non potevano prendere una tortilla di pollo?
Ah, le scelte.
Maya ‘na gioia.