Arrosticini di un fegato che conoscevo

Apolae Apolae

Comunque, presto mi sarei sposato. Certo, con le menate del caso, ma ce l’avrei fatta. Trovato un lavoro, io e Tina avremmo pianificato il matrimonio, cercando affitti non troppo fuorimano, perché lei adorava la periferia dei giardini, mentre io amavo rimanere in un raggio ristretto. Sarebbe bastato un supermercato per la famiglia, parco e palestra per il tempo libero, scuola e biblioteca per i bambini, farmacia e ospedale per le emergenze, night e riviera per i soffoconi scacciapensieri. Infine, coi cassonetti nel giro di, la butto lì, cinque minuti, la vita avrebbe sorriso. E un tabaccaio per bruciare euro al Superenalotto? Lo diceva nonna Memena, Jamme stavolta tocca annoi, meno pragmatica di zia Marietta, Piglia piglia metti ‘n tasc, che ce li regalava per comprare la pizzetta. Un po’ come la storia dell’uovo oggi o della gallina domani, solo che le pollastre andavano sempre a qualcun altro.

Capitava spesso di sentirmi giù, sapete. Laurea con lode, semestre in USA, messa ogni domenica e letto rifatto ad arte. Però niente lavoro. L’avevo urlato a papà, digrignato a mamma, bisbigliato a mio fratello, nascosto ai parenti, implorato all’assessore, pianto al prete. E tutti Embè Paoletto, su, che vuoi farci, dai, tieni 27 anni, capisci, nu guaglione, sì, puoi aspettare.

Durante uno stage scappò dai denti un lamento sommesso, si tuffò dalle labbra quel dubbio di sprecare le mie competenze in un lavoro modesto. Non so se sia un lavoro per me, nella vertigine dello scollo della tutor. Che dici, carne stupita, mi augurò di trovare quello giusto, chi sapeva poi quale, col tono di chi un po’ invidiava e un po’ già snobbava, ditino smaltato e nervoso, torturando il tasto canc per gettare rimpianti nel cestino di Windows.

In TV una signora mi diede del bamboccione e dello sfaticato, lacrime di sangue agli occhi, forse aveva ragione : avrei dovuto chiamare un call-center e strappare quella laurea in lingue preziosa come cartaccia, un origami sfatto di ridicole ambizioni. Come accadde ad Ascoli, oltre confine tanto ero disperato: giacca cravatta e Parker nel taschino, stretta di mano salda a nascondere la frolla del mio animo. Insomma, l’idiota notò sul curriculum la residenza a Pescara, Caspita, dott. Ciaroni, che viaggio s’è fatto, tastando la cravatta, nodo storto e bocca dritta. Si figuri direttore, risposi sfanculandolo nella mente, come se mi piacesse fare colloqui a cazzo, oggi nelle Marche domani chissà in Romagna, pagando la benzina coi rimasugli secchi della PostePay, briciole di regali e ripetizioni. In realtà così perdevo solo tempo, soldi, bile. Infine il tizio mi scartò perché abitavo lontano, davvero troppo. Se ne rese conto osservando la mia schiena curva, piegata qualche giorno dopo a Chieti, con un responsabile HR che inarcando il sopracciglio sospettoso domandò se fossi in grado di parlare in inglese. Ne è sicuro? Laureato. Beh, sa, a volte. Immagino. Allora segno. Se vuole parliamo in lingua. No guardi basta una conferma. Proseguì presentando il suo progetto CoCoPro, per il quale ero fuoriquota ma lui non se n’era accorto, offuscato dalle mie soft-skill e dal mio standing eccellente. Dondolava la testa svagato, ciuffo grigio in balìa del condizionatore, al limite di una stempiatura minacciosa, fino al congedo confezionato nel rammarico per la mia giovane età.

Alcuni m’invitarono a provare al Nord, per cercare una vita dove se ne poteva ancora trovare una. Ogni mia speranza si schiantava contro la realtà, come un piccione controvento addosso a un muro di mattoni. Però ci sarei voluto rimanere, in Abruzzo, a mangiare arrosticini di fegato davanti alle palme immobili sul lungomare. Per un pezzo ci provai, giuro, a restare.

Non avevo neanche trent’anni. Potevo aspettare.

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