Cadice 1999

Jan Vecoli

È l’agosto del 1999. Sono con due amici a Cadice, poco oltre Gibilterra, in una delle tappe improvvisate di un interrail cazzaro. Troviamo da dormire all’Hostal Comercio, in centro città, una pensione che si sviluppa su diversi piani circolarmente, intorno a una corte interna.

La tipa dell’ostello ci fa vedere la camera e poi ci guida fino al bagno, che si trova sullo stesso piano. Nos vemos pronto, adios. A quel punto finalmente usciamo, ventiquattrenni e felici in cerca di cibo, alcool e feste.

Al ritorno è quasi mattino. Entriamo in camera un po’ sbronzi, ho bisogno di andare in bagno. L’ultima porta del corridoio, aveva detto la tipa, papale-papale. Perciò esco dalla camera, arrivo in fondo al corridoio, faccio per aprire la porta. Chiusa. Da dentro si accende una luce. Poi si spegne. La vedo filtrare da sotto la porta. È occupato, mi dico. Torno in camera, dove, con mestizia, dico agli altri che è occupato. È occupato, cristosanto. Aspetto due minuti, tre minuti, quattro minuti in cui spero che non mi scoppi la vescica. Quindi torno al bagno e faccio per aprire la porta, toc toc. È ancora chiusa. Di nuovo la luce si accende e si spegne. Busso. Niente. Busso più forte. Niente.

Comincio a pensare che qualcuno dentro si stia sentendo male, inizio a scuotere la porta. Da dentro si accende la luce. Urlo señor señor, como va. Silenzio. Luce di nuovo spenta.

A quel punto non c’è più dubbio: chiunque ci sia dentro, dev’essere morto. Mi prende l’eroismo dell’alba e decido di entrare.

L’ostello è vecchio, le porte sono leggere e malmesse. Faccio due passi indietro – piccola rincorsa – spallata. La porta si spalanca subito, la serratura crepa il legno, la luce si accende.

Dentro, due ragazze a letto si mettono a urlare. Sono vive e io ho appena sfondato la porta della loro camera. Scappo.

La tipa della reception non era stata chiara.

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